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L’impianto manualistico serve poco
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Bersaglieri e corazzieri
Fare l'Italia, fare gli italiani
Il processo di unificazione nazionale
Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - Il contesto, gli attori, il perché del Risorgimento italiano - 3.2 SOGGETTI E PROTAGONISTI - I patrioti - La corrente democratica repubblicana
La corrente democratica repubblicana
I democratici, così come i liberali, sostenevano tutte le libertà di tipo individuale, ovvero libertà di pensiero, di azione, di parola, di associazione. Si differenziavano invece dai liberali per la grande importanza che attribuivano alla sovranità popolare, all’uguaglianza e alla giustizia sociale. In particolare ritenevano che l’Italia dovesse conquistare la sua indipendenza e la sua unità attraverso un’insurrezione nazionale con la partecipazione della popolazione. Non si fidavano delle monarchie e dei regnanti italiani che in varie occasioni (dal 1820 al 1848-1849) avevano concesso e poi ritirato la Carta costituzionale. Pensavano invece a una “nuova Italia” come a una repubblica fondata sulla sovranità popolare, che doveva esprimersi attraverso un’assemblea rappresentativa eletta a suffragio universale.
L’esperienza breve ma significativa della Repubblica Romana del 1849 ci testimonia quale fosse il loro programma: alla Costituzione nata in quei pochi mesi è ispirata la Carta costituzionale, che dal 1° gennaio 1948 è il fondamento della Repubblica italiana.
Tra le fila dei democratici erano numerosi gli esponenti della media e piccola borghesia e vasti strati operai.
Nello schieramento democratico si confrontavano posizioni diverse. Su tutte risultò vincente e aggregante l’idea – sostenuta da Giuseppe Mazzini (1805-1872) – di una repubblica unitaria da conquistarsi con l’iniziativa rivoluzionaria. Invece la posizione repubblicana e federalista di Carlo Cattaneo (1801-1869) – che riconosceva un ruolo importante alle autonomie locali – ebbe al tempo poco seguito. Tuttavia alcuni mazziniani, tra i quali Alberto Mario (1825-1883) e Jessie White (1832-1906), che curarono l’edizione delle opere di Cattaneo dopo la sua morte, si avvicinarono all’idea federalista e ne condivisero il progetto.
Vi era poi un piccolo gruppo di democratici, come Giuseppe Ferrari (1811-1876) e Carlo Pisacane (1818-1857), i quali ritenevano che la rivoluzione in Italia dovesse prendere un’impronta “socialista”, ovvero che la liberazione dallo straniero dovesse accompagnarsi con la giustizia sociale, con l’abbattimento dei privilegi delle classi abbienti e con la redistribuzione delle terre e della ricchezza.
Giuseppe Mazzini, a lungo esule per la sua attività rivoluzionaria e per la sua fede repubblicana, ebbe un ruolo fondamentale tra i democratici che furono protagonisti del Risorgimento italiano. La sua elaborazione teorica e la sua instancabile opera di proselitismo furono essenziali per l’unificazione nazionale, anche se questa venne raggiunta con modalità (il sostegno di casa Savoia e l’intervento dell’esercito piemontese) e con un risultato – la proclamazione del Regno d’Italia – molto distanti dalle intenzioni dell’esule genovese. Una volta raggiunta l’unità del paese, la vasta e capillare rete mazziniana costituirà, soprattutto nell’Italia centrosettentrionale, la base su cui si struttureranno, nella seconda metà del XIX secolo, i partiti popolari (repubblicano e socialista) e le organizzazioni dei lavoratori.
Al pensiero di Mazzini si ispirarono gran parte dei patrioti risorgimentali: oltre al più noto Giuseppe Garibaldi, difensore della Repubblica Romana, poi esule in America e infine comandante vittorioso dell’impresa dei Mille, ricordiamo Goffredo Mameli, autore del nostro inno nazionale, morto nella difesa della Repubblica Romana (6 luglio 1849), Ugo Bassi, prete e patriota catturato a Comacchio, mentre con Garibaldi tentava di raggiungere Venezia e ucciso in gran fretta e senza processo a Bologna per ordine dagli austriaci, l’8 agosto 1849, Daniele Manin, l’eroe della Repubblica veneta che dopo la sua caduta (1849) andò esule a Parigi. Citiamo ancora i due protagonisti degli avvenimenti toscani del 1848-1849: Giuseppe Montanelli (1831-1862) e Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873). Tra i due che, insieme a Giuseppe Mazzoni, guidavano il Governo provvisorio toscano, dopo la fuga a Gaeta di Leopoldo II (febbraio 1849) scoppiarono dei contrasti circa la proclamazione della Repubblica e l’unione con Roma. Mentre Montanelli, promotore dell’idea di una “Costituente italiana” (da lui proclamata con un discorso sulla pubblica piazza di Livorno l’8 ottobre 1848) spingeva in tal senso, Guerrazzi, nominato dittatore e assunti i pieni poteri, tentò di accordarsi con i moderati e di preparare il ritorno di Leopoldo II. Il suo intento era quello di scongiurare l’intervento diretto dell’esercito austriaco nel granducato, ma il tentativo andò a vuoto: le truppe di occupazione austriaca entrarono in Firenze il 25 maggio 1849.
Giuseppe Mazzini sostenne il suffragio universale anche per le donne. Non solo per questa ragione molte sincere democratiche collaborarono con lui e finanziarono il suo movimento. Citiamo soltanto Cristina Trivulzio di Belgioioso (1808-1871), alla quale Mazzini affidò l’organizzazione degli ospedali durante la difesa della Repubblica Romana, Jessie White Mario (1832-1906), inviata giovanissima a tenere i contatti con Pisacane prima della sua infelice missione a Sapri, Sara Nathan Levi (1819-1882) conosciuta a Londra e poi amica e finanziatrice preziosa.
Si richiamavano alle idee mazziniane anche i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera e i cosiddetti Martiri di Belfiore. I primi, figli di un ammiraglio della marina austriaca, nel 1844 tentarono di provocare un’insurrezione in Calabria e vennero fucilati, dopo un sommario processo, nel Vallone di Rovito vicino a Cosenza. Del progetto era stato informato lo stesso Mazzini, esule a Londra, ma una violazione della sua corrispondenza svelò il piano e lo fece fallire.
Con i secondi ci troviamo nel Lombardo-Veneto, dove, dopo la sconfitta di Novara (23 marzo 1849), la repressione della polizia austriaca era durissima. I patrioti, guidati da un sacerdote, don Enrico Tazzoli, furono trovati in possesso di cartelle del prestito mazziniano, vennero accusati di cospirazione e, riconosciuti colpevoli, vennero impiccati a Belfiore, presso Mantova, in più riprese dal 1851 al 1855. Si disse che quelle condanne fortemente volute dal feldmaresciallo Radetzky nocquero all’Austria ben più di una guerra persa: da allora ogni riappacificazione fu impossibile.
Nel 1857 Carlo Pisacane mise in atto l’ultimo tentativo insurrezionale di ispirazione mazziniana: la spedizione di Sapri che, come è noto, finì in un massacro. Quel fallimento ebbe però il merito di riproporre “la questione napoletana” all’opinione pubblica italiana e internazionale. Tutti poterono osservare quali fossero le condizioni di vita della popolazione e la situazione carceraria nel Regno delle Due Sicilie e come dal governo borbonico (che il ministro inglese Gladstone aveva definito «negazione di Dio eretta a sistema di governo») venisse amministrata la giustizia e fossero regolate le questioni di ordine pubblico. Per i patrioti fu un’occasione per ripensare alle condizioni che potevano favorire o ostacolare l’insurrezione nazionale e in certo qual modo preparò una diversa gestione e regia per la ben più fortunata Spedizione dei Mille (1860). In seguito la vicenda, grazie al racconto poetico che ne fece Luigi Mercantini con La spigolatrice di Sapri, contribuì non poco alla costruzione del mito della patria.