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La situazione della penisola dopo il 1849: repressioni, moti insurrezionali e iniziative piemontesi nel contesto internazionale

Alla fine dell’estate 1849 il movimento patriottico in Italia sembrava sconfitto: la guerra contro l’Austria era stata persa, i sovrani dei diversi stati erano tornati al loro posto e avevano abolito le Costituzioni, decine di patrioti erano morti e molti erano dovuti andare in esilio. Anche all’estero, dopo le varie insurrezioni del 1848, solo la Francia era riuscita a mantenere uno Stato costituzionale e repubblicano.
Ma ormai, dopo gli eventi del biennio 1848-1849, in Italia non era possibile ritornare al passato perché, almeno tra la popolazione urbana, i valori di indipendenza dallo straniero e di libertà politica erano sempre più diffusi, così come la consapevolezza della forza della mobilitazione popolare. Ma la sconfitta aveva anche fatto emergere le debolezze del movimento patriottico, spaccato tra posizioni monarchiche e repubblicane, federaliste e fautrici dell’unità, radicali e conservatrici, cattoliche e anticlericali. Era quindi il momento di ripensare a quello che era accaduto e comprendere come poter ripartire con migliori possibilità di successo.
I dieci anni tra il 1849 e il 1859 servirono a questo.

Crisi dei democratici

 

Il movimento democratico, che aveva guidato le insurrezioni del 1848 ma non era riuscito a mantenere sul piano politico l’iniziativa e la centralità che aveva avuto sul piano militare, entrò in una profonda crisi. Mazzini, ritenendo che gli insuccessi subiti fossero dovuti solo alla mancanza di organizzazione e di coordinamento, fondò il Partito d’Azione e riconfermò la linea dell’insurrezione per arrivare a un’Italia unita e repubblicana. Ma molti, anche tra i suoi seguaci, criticavano quel programma che lasciava troppo poco spazio alle autonomie locali e non aveva nessuna attenzione per i problemi sociali delle masse, specie rurali. Erano, invece, queste le sole condizioni che avrebbero potuto portare i democratici a riunire intorno a sé la maggioranza del paese. Diversi tentativi insurrezionali messi in atto in quegli anni, tra cui quello di Pisacane nel Regno delle Due Sicilie, finirono in un disastro, mentre in Lombardia molti patrioti furono perseguitati e condannati a morte, come nel caso dei Martiri di Belfiore. Un’altra sconfitta per le speranze dei democratici italiani fu infine il colpo di stato che trasformò la Francia repubblicana in un nuovo impero: infatti nel 1852 Luigi Napoleone, appoggiato dai moderati e dai cattolici francesi, cessò di essere il presidente della Repubblica francese e si proclamò imperatore con il nome di Napoleone III.

Ripresa dei moderati

 

Tra i moderati era del tutto fallita l’ipotesi cattolica neoguelfa, che aveva sperato in un’Italia fatta come una confederazione di stati monarchici sotto la presidenza del papa. Era ormai chiaro che, se si voleva arrivare all’unità, il papato doveva essere sconfitto e per questo anche i patrioti moderati erano tutti su posizioni anticlericali. Infatti i ricchi e i nobili possidenti immaginavano che la fine del potere temporale della Chiesa avrebbe messo sul mercato un’enorme quantità di beni immobiliari a disposizione di chi aveva i soldi per comprarseli, come puntualmente accadde dopo la presa di Roma (1870).
I moderati avevano inoltre capito che, se non volevano lasciare l’iniziativa ai democratici, dovevano mettersi alla testa del processo risorgimentale. Troppo grande ai loro occhi era il pericolo che si era corso nel 1848, quando la lotta per la Costituzione e l’indipendenza si era spostata su temi sociali, il popolo aveva conquistato le piazze e aveva cominciato a chiedere miglioramenti nelle condizioni di vita e di lavoro. Per questo tutti cominciarono a guardare al Regno di Sardegna come al possibile garante di un processo di trasformazione della situazione italiana, ma in senso moderato.
Il nuovo re Vittorio Emanuele II aveva infatti mantenuto lo Statuto e aveva accolto migliaia di esuli degli altri stati italiani. Due suoi primi ministri, prima Massimo D’Azeglio e poi Camillo Benso di Cavour, avevano trasformando l’arretrato Piemonte in uno Stato moderno e liberale sia sul piano politico, per esempio abolendo i privilegi del clero, sia su quello economico, per esempio abolendo le tariffe doganali e favorendo lo sviluppo dell’industria.
Anche se nei progetti dei Savoia non c’era l’unificazione della penisola, ma solo un ampliamento territoriale in direzione della Lombardia e magari anche del Veneto, le speranze dei patrioti puntarono sempre di più verso il Piemonte. Nel 1857 fu fondata la Società Nazionale, un’organizzazione di volontari, clandestina ma approvata da Cavour, che voleva unire tutti quelli che erano disposti a lottare per l’indipendenza intorno alla casa Savoia. A essa aderirono anche molti democratici, come Garibaldi, che era disposto a mettere da parte la sua fede repubblicana se un re gli garantiva la possibilità di arrivare a un’Italia unita e indipendente.
In vista di una nuova possibile guerra contro l’Austria, Cavour, consapevole del fatto che da solo il piccolo Piemonte non avrebbe avuto speranze, cercò di lavorare sul piano diplomatico per procurarsi appoggi internazionali specialmente da parte di Francia e Inghilterra. Per questo nel 1855 fece partecipare il Regno di Sardegna alla guerra che Francia, Inghilterra e Turchia stavano combattendo in Crimea contro la Russia. Inoltre nel 1858 a Plombières riuscì a concludere un accordo segreto con Napoleone III, utilizzando come strumento di convinzione il rischio che i democratici italiani riprendessero iniziative rivoluzionarie e, con l’obiettivo dell’unificazione della penisola, arrivassero a minacciare nuovamente lo Stato della Chiesa.
L’accordo porterà alla Seconda guerra d’indipendenza che si concluderà con l’ampliamento territoriale del Piemonte: la Lombardia sarà infatti acquisita dal Regno di Sardegna con il trattato di Villafranca, mentre la Toscana e l’Emilia vi aderiranno tramite un plebiscito.

Lo sviluppo travolgente della società industriale

 

A partire dalla metà del secolo in Europa occidentale si era messo in moto un processo economico che aveva trasformato paesi ancora prevalentemente agricoli in società industriali, un processo che stava modificando radicalmente i modi di vivere e di lavorare, le mentalità e rapporti tra le persone e la composizione dei diversi gruppi sociali. Protagonisti di questo cambiamento furono specialmente l’Inghilterra, la Francia, la Prussia, l’Olanda e il Belgio.
Grazie all’introduzione di nuove invenzioni, in quella che è stata chiamata Seconda rivoluzione industriale la produzione si sviluppò non più solo nel settore tessile, ma in quello siderurgico. La produzione di ferro rese possibile la creazione di una rete ferroviaria, che si diffuse rapidamente in tutto il continente, dando un ulteriore impulso alla produzione. Tra il 1850 e il 1870 l’industria crebbe del 500% chiamando dalle campagne migliaia di contadini che, trasferendosi in città, diedero a loro volta impulso alla crescita dell’edilizia, del trasporto urbano e del commercio. L’invenzione delle navi a vapore e quella del telegrafo contribuirono a facilitare gli scambi e a rendere possibile un mercato di dimensioni mondiali, che non poteva accettare i vincoli feudali e le barriere doganali del passato. Si affermò così progressivamente una nuova concezione dell’economia basata sul libero scambio e sulla libera concorrenza.
Questo processo di sviluppo arrivò a toccare anche l’Italia, almeno nelle sue zone più dinamiche: in Lombardia nacque l’industria della seta e cominciò a espandersi quella metallurgica e meccanica; in Piemonte fu fondata una Banca nazionale per migliorare il sistema finanziario e si cominciò a investire nella rete ferroviaria, che dagli otto chilometri del 1848 passò a 850 nel 1859. Nel 1853 la linea telegrafica tra Londra e Parigi fu estesa fino a Bologna e nel marzo 1855 arrivò fino a Roma e a Napoli.
Ma erano piccoli passi e sicuramente la situazione della maggior parte degli stati italiani continuava a essere di grande arretratezza.

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La stazione di Alessandria nel 1850

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