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Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - Il contesto, gli attori, il perché del Risorgimento italiano - 3.1 SOGGETTI E PROTAGONISTI - I padri della Patria - Vittorio Emanuele II

Vittorio Emanuele II

Re democratico o assolutista?

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Vittorio Emanuele era il primogenito di Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna, e di Maria Teresa d’Asburgo-Toscana. Nacque a Torino il 14 marzo 1820 e morì a Roma il 9 gennaio 1878.
Forse sopravvisse a un incendio all’età di pochi mesi a Firenze, ma subito si diffuse la diceria che in quell’occasione era morto il vero Vittorio Emanuele, prontamente sostituito dal figlio di un macellaio, un certo Tanaca, nato negli stessi giorni. La causa della voce popolare derivava dal fatto che nell’incendio era morta la sua balia e si era carbonizzata la culla. D’altro canto sin da bambino non somigliava a nessuno dei suoi genitori, alti, magri e silenziosi tanto quanto il piccolo era tarchiato, sanguigno e vivace.
Divenne re del Regno di Sardegna nel 1849, dopo l’abdicazione del padre Carlo Alberto per la sconfitta nella Prima guerra d’indipendenza.
Vittorio Emanuele il 24 marzo 1849 firmò l’armistizio con Radetzky, il generale austriaco vincitore. Entrambi si conoscevano bene, perché Radetzky era stato testimone alle nozze di Vittorio Emanuele. Secondo versioni celebrative si racconta che l’austero generale gli offrisse nuove terre in cambio dell’abrogazione dello Statuto Albertino: lui rifiutò e da qui nacque il mito del Re galantuomo.

In realtà in quell’occasione il giovane re espresse tutto il suo astio contro i democratici e rimarcò la sua fede nell’assolutismo. In una lettera al generale Felix von Schwarzenberg, Radetzky riferisce che Vittorio Emanuele «dichiarò fermamente di aver la più solida intenzione di mettere a terra il partito democratico al quale suo padre, negli ultimi tempi, aveva dato tanta mano libera da farne un pericolo per sé e per il trono». Pare poi che Radetzky non avesse alcun interesse allo Statuto, anzi desiderava mantenere uno stato cuscinetto fra il Lombardo-Veneto e la Francia, con una sua propria identità.


Con il Parlamento del Regno di Sardegna, Vittorio Emanuele ebbe un comportamento privo di scrupoli: poiché si rifiutava di ratificare la pace con l’Austria, preferendo continuare la guerra, lo sciolse per ben due volte finché non venne eletta una maggioranza di moderati che poté ratificare quanto il re voleva.
Mantenne lo Statuto Albertino, ma dichiarò anche al nunzio apostolico (ambasciatore del papa) «di non vedere alcuna utilità nel governo costituzionale, anzi di non attendere altro che il momento opportuno per disfarsene»; tuttavia non lo fece mai, più per necessità che per convinzione. Infatti aveva bisogno dell’appoggio interno dei liberali moderati alla Cavour e di quello internazionale di Francia e Inghilterra per un’eventuale ripresa della guerra contro l’Austria.

Vittorio Emanuele II, 1857, carte de visite, Museo del Risorgimento, Brescia

I rapporti con Cavour e Garibaldi

I rapporti con Cavour non furono semplici a causa della differenza di vedute, ma soprattutto per il temperamento.
Cavour, noto come abile tessitore di trame politiche interne e internazionali, era attentissimo alle relazioni interpersonali e a cogliere qualsiasi spunto potesse tornare utile alla sua strategia. Era spregiudicato, a volte passionale, ma né ingenuo né superficiale. Inoltre era un convinto sostenitore della monarchia parlamentare, al contrario di Vittorio Emanuele.
Il re era poco diplomatico, spesso cadeva in contraddizione assumendo posizioni diverse con gli ambasciatori che lo contattavano, tant’è che lord Clarendon, ministro degli Esteri inglese, poté permettersi di affermare che il «re era ignorante, bugiardo, intrigante e nessuno lo può servire senza danno per la sua reputazione».
Spesso il re mal tollerava le scelte di Cavour, al punto da creargli problemi diplomatici: ne è una prova la gestione della Spedizione dei Mille, di cui Cavour diffidava e che sostenne nel più totale anonimato. Vittorio Emanuele invece la appoggiò incautamente, sia mandando rinforzi a Talamone, sia sostenendo Garibaldi durante lo sbarco in Calabria, creando tensioni internazionali, che Cavour a malapena riuscì a sopire.
Al contrario esisteva una naturale simpatia reciproca fra Garibaldi e Vittorio Emanuele, forse perché entrambi erano molto diretti e irruenti.

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L’incontro di Teano

Ma la delusione dell’incontro di Teano fece presto cambiare idea a Garibaldi: generosamente egli aveva donato il Regno meridionale al re del Piemonte in cambio di poche richieste (come il riconoscimento dell’esercito garibaldino), ma dal momento che non ottenne nulla, preferì ritirarsi nella sua isola di Caprera, cercando di sotterrare l’amarezza.
Garibaldi perse del tutto la stima in Vittorio Emanuele, quando si rese conto degli sperperi del nuovo Stato italiano e del suo re. Infatti, oltre a essere riutilizzati in modo non ben dichiarato i tesori del Banco di Sicilia e del Banco di Napoli appartenuti all’ex Regno borbonico, Garibaldi (e non solo lui) fu impressionato dalle spese eccessive della “lista civile”, cioè l’appannaggio che lo Stato italiano concedeva alla corona per mantenersi.

Un re per l’Italia tra sprechi e corruzione

Il 17 marzo 1861 il Parlamento italiano proclamò Vittorio Emanuele re d’Italia, ma il re volle mantenere come numerale “II”, a sottolineare che in fondo era re di un Piemonte allargato nei suoi confini, grazie alla casa Savoia. Questa fu una delle prime delusioni per coloro che credevano nella fondazione di un nuovo stato. In seguito si comportò da monarca poco attento ai bisogni del paese, ma piuttosto interessato ai suoi.
Venuta meno la retorica che volle rappresentarlo come padre della Patria, ne emerge un personaggio diverso, grazie alla apertura di nuovi archivi e alla lettura comparata di documenti dell’epoca, pur non essendo disponibili gli archivi di casa Savoia (spostati in Svizzera nel 1946 al momento dell’esilio del re, dopo il referendum istituzionale).
La “lista civile” a sua disposizione era la più alta d’Europa, più di Russia, Inghilterra e Stati Uniti. Dopo l’unificazione volle mantenere molte delle residenze degli ex governanti degli stati italiani, arrivando a possederne 343. Le sue spese erano eccessive non tanto a livello personale, quanto per mantenere le numerose amanti, cui faceva doni costosissimi, e i tanti figli illegittimi.

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Per il matrimonio dei due figli avuti da Rosa Vercellana, nota come la bella Rosina, (sua antica amante che volle sposare con rito morganatico, che impedisce il passaggio di titoli in eredità), spese intorno ai due milioni di lire del tempo.
«Il Regno d’Italia dopo l’unificazione spendeva più del doppio di quanto avevano speso complessivamente i vari stati italiani prima del 1860. Le zone conquistate erano spremute dai tributi e le uscite superavano di un terzo le entrate. I soldi non bastavano mai» e quindi il re cercava di ottenerli anche in modo forzato dalle casse del suo Stato. Quando questo non era sufficiente, non si tirava indietro nel partecipare ad affari non proprio limpidi, come la vendita della Regia Tabacchi, cioè dei monopoli dei tabacchi di stato, da cui trasse notevole profitto personale. Pare che ne ottenesse una tangente, che allora chiamavano bonariamente Zuccherino, di ben sei milioni (un equivalente di circa ventidue milioni di euro attuali).
Una delle cause del disavanzo statale era da individuarsi proprio nelle spese eccessive della “lista civile”, cioè l’appannaggio reale. Infatti il rigoroso ministro delle Finanze Quintino Sella ne era così convinto che nel 1870 in Parlamento si rivolse al re, senza nominarlo apertamente, invitandolo a dare alla nazione miglior esempio di economia e di moralità. Certo è che quando morì nel 1878, Vittorio Emanuele lasciò quaranta milioni di debiti (un equivalente di circa 150 milioni di euro attuali).

Vittorio Emanuele II, re d’Italia

Gli ultimi anni e la sua immagine pubblica

Come re d’Italia, Vittorio Emanuele spostò la sua sede di volta in volta nelle due successive capitali del regno: da Torino a Firenze nel 1864 e da Firenze a Roma nel 1870.
Giunto a Roma si insediò nel palazzo dei papi: il Quirinale, che tuttavia non amava, perché a suo parere sapeva di “clericale”.
In quanto responsabile della caduta dello Stato della Chiesa nel 1870, era stato infatti scomunicato dal papa. Solo in punto di morte gli fu levata la scomunica per permettergli di ricevere i sacramenti. Alla sua morte invece non poté assistere la moglie Rosina, perché i ministri ritennero inopportuna la sua presenza.
Dopo la sua morte, ebbe inizio un processo di “beatificazione” del vecchio Re galantuomo e padre della Patria, così come accadde per tutto il Risorgimento. Vittorio Emanuele che desiderava essere sepolto in Piemonte, per volontà del figlio Umberto I, fu invece portato al Pantheon di Roma e tumulato in una tomba monumentale.
In sua memoria sempre Umberto I volle costruire un edificio ancor più monumentale che ricordasse un antico tempio greco: venne così innalzato il Vittoriano, chiamato anche Altare della Patria, fra i Fori Imperiali e Palazzo Venezia a Roma.
Ora vi riposa, in una tomba spesso celebrata dai rappresentanti dello Stato, il milite ignoto, in onore dei morti di tutte le guerre.

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L’Altare della Patria o Vittoriano a Roma

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Tomba di Vittorio Emanuele II al Pantheon a Roma

Osserva le seguenti caricature su Vittorio Emanuele (volutamente ironiche e satiriche): con Garibaldi che gli “calza” il Regno delle Due Sicilie e in abito da caccia, passione per la quale era disposto a sacrificare gli impegni pubblici. Infine una caricatura dei diversi modi di prostrarsi al re durante la visita a Bologna dopo il plebiscito del 1860.

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Guida alla Lettura

Confronta i monumenti celebrativi a Vittorio Emanuele con le tre caricature. Secondo te, quale era l’idea prevalente sul Re galantuomo nell’immaginario popolare?

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