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Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - Il completamento dell'unità e la costruzione dello Stato - 1 IL TEMA - I problemi del dopo unità   

I problemi del dopo unità

Nel 1861, dopo tanti anni di lotte e tante sofferenze di patrioti, l’Italia era finalmente unita in uno Stato indipendente. Ma questo risultato non fu salutato da tutti come una festa: per molti infatti fu una sconfitta o il fallimento di speranze e ideali, mentre il processo che aveva portato rapidamente e un po’ fortunosamente alla proclamazione del Regno d’Italia lasciava aperti vecchi problemi e altri ne apriva, difficili da affrontare da parte dei governanti del giovane Stato unitario. 
 

Gli sconfitti


Ovviamente i principali sconfitti dal processo di unificazione furono i sovrani degli stati italiani preunitari, che dovettero partire per l’esilio, e i sudditi che rimasero a loro fedeli e per questo subirono carcere, esilio o comunque furono emarginati dalle posizioni di potere e privilegio di cui godevano prima. Ma sconfitto fu anche tutto il movimento repubblicano e democratico, che più aveva partecipato alle lotte risorgimentali e ora si trovava a vivere in un regno e con un sovrano che non aveva neppure sentito il bisogno di cambiare il numero legato al suo nome per indicare una discontinuità con il precedente Regno di Sardegna. Il movimento passò all’opposizione in Parlamento, ma molti, amareggiati e delusi, non accettarono la nuova realtà. 
 

La difficile unificazione
 

Il Regno d’Italia era stato proclamato nel 1861, ma in realtà l’unità della penisola non era completa: tutto il Nordest faceva ancora parte dell’Impero austro-ungarico e lo Stato della Chiesa continuava a esistere, presidiato dalle truppe francesi. In un primo momento gli equilibri internazionali non permisero nessuna ulteriore espansione, tanto che, per dimostrare che il Regno d’Italia non aveva aspirazioni su Roma, la capitale fu spostata da Torino a Firenze e quando Garibaldi per ben due volte tentò un’azione di forza contro lo Stato della Chiesa, come quella che l’aveva portato a conquistare il Sud, prima l’esercito italiano poi quello francese intervennero a bloccarlo. Ma tra il 1866 e il 1870 il quadro europeo si rimise in movimento, la Prussia dichiarò guerra prima all’Austria e poi alla Francia e sull’onda dei successi prussiani l’Italia ottenne il Veneto (anche se non il Trentino e la Venezia Giulia) e mise fine al dominio temporale dei papi. Roma divenne la nuova capitale d’Italia.

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La breccia di Porta Pia in una foto del 21 settembre 1870, il giorno successivo all’entrata degli italiani a Roma

Le discutibili scelte del nuovo governo


Ma i problemi dell’unificazione non erano solo territoriali, riguardavano anche tutti gli aspetti della vita di un territorio che fino a quel momento era stato diviso in sette stati: leggi, esercito, tasse, moneta, amministrazione, unità di misura, sistemi bancari ecc. Purtroppo quasi sempre questa unità fu realizzata semplicemente imponendo al resto del paese leggi e sistemi dell’ex Regno di Sardegna: fu una “piemontizzazione” che suscitò nuovi scontenti specie nei ceti politico-amministrativi ed economici delle altre regioni che si sentirono messi da parte e rifiutati.

Sul territorio nazionale vennero tolte le barriere doganali e applicato il libero scambio, mentre rispetto all’estero venne utilizzata la tariffa doganale valida nel Regno di Sardegna, molto più bassa di quelle degli altri stati preunitari, specialmente di quella del Regno delle Due Sicilie, che fino a quel momento aveva avuto un regime di protezione delle proprie merci piuttosto alto.

Questo portò squilibri molto importanti specie nel Meridione, dove le merci locali subirono la concorrenza di quelle più avanzate del Nord e dell’estero.

Il mercato libero interno esigeva una rete di comunicazioni adeguata, ma le ferrovie e le strade erano ancora molto scarse. Il governo diede subito impulso allo sviluppo di una rete ferroviaria interna e con l’estero, ma la costruzione di ferrovie non ebbe in Italia il ruolo di acceleratore del processo di industrializzazione che aveva avuto in Inghilterra, Francia, Belgio e Germania.

Infatti i capitali impiegati furono in gran parte stranieri e anche molto materiale necessario (binari e traversine, motrici, carrozze, macchinari per la costruzione di viadotti e gallerie) fu importato, in mancanza di un’adeguata produzione interna di tipo metallurgico e meccanico.

Sul piano finanziario, bisognava sanare il bilancio statale e impostare una politica economica unitaria, ma anche in questo caso le decisioni non favorirono l’integrazione delle diverse parti del paese né lo sviluppo dei ceti più poveri, anzi, accentuarono le differenze.

Le casse degli altri stati contribuirono a sanare i debiti contratti dal Regno di Sardegna per la modernizzazione del Piemonte e per le guerre d’indipendenza; le entrate dello Stato furono ottenute specialmente con tasse indirette, come quella sul sale o sul macinato, che pesavano in particolar modo sulla popolazione meno ricca; le proprietà dello Stato e quelle incamerate dallo Stato (beni demaniali ed ecclesiastici, ferrovie, industrie di Stato ecc.) furono svendute a prezzo basso e comprate da chi disponeva di denaro liquido, cioè la borghesia, che poté così arricchirsi enormemente; non fu realizzata nessuna riforma agraria che avrebbe scontentato l’aristocrazia, proprietaria dei maggiori latifondi. L’unità d’Italia, quindi, per molti non fu di alcun vantaggio, come appare in una canzone popolare in quegli anni:
 
 […] Marchi di bullo, la carta bollata,

tabaccu caru, carissima sale,

lu pane ndj strapparu di mani,

lu pane nostru, o patri, e mo languimu.

Simo trattai pejo de li cani

pagamu supra l’acqua chi ‘mbivimu,

la curpa eni ca fummu luberali:

l’Italia fatta ndj portaru sti mali.
 
 […] Marche da bollo, carta bollata,

tabacco caro, sale carissimo,

il pane ci strapparono dalle mani,

il pane nostro, o padre, e adesso languiamo.

Siamo trattati peggio dei cani

paghiamo anche l’acqua che beviamo,

la colpa è che fummo liberali:

l’Italia unita ci portò questi mali. 

 

 

 


Le rivolte popolari


Le scelte del governo non potevano certo favorire la pace, specie nel Meridione dove si intrecciavano l’estrema miseria della popolazione rurale, le speranze deluse di quelli che avevano appoggiato Garibaldi non solo per unificare l’Italia, l’ostilità di chi sentiva il nuovo Stato come una conquista piemontese, il malessere di una popolazione tradizionalmente cattolica di fronte alla politica anticlericale del nuovo governo.

Per anni, già a partire dalla fine del 1860, nelle province dell’ex Regno delle Due Sicilie divampò un’insurrezione che ebbe il carattere di una vera guerra civile in cui furono impegnati migliaia di soldati dell’esercito contro quelli che venivano chiamati “banditi”, ma che erano la maggioranza della popolazione locale.

La lotta costò migliaia di morti e fu repressa con leggi speciali e metodi brutali, tanto da essere criticata persino da esponenti del partito al governo oltre che da politici di alcuni stati europei.

Gli stessi metodi furono usati anche contro una rivolta che incendiò Palermo nel 1866.

Allegoria_italia_post1861.jpg

Questa vignetta esprime ironicamente la situazione politica postunitaria: l’Italia (simboleggiata da una donna con una corona a forma di torre) indica a Cialdini (generale in capo dell’esercito italiano, con la sciabola sguainata) i suoi nemici abbarbicati attorno a Napoleone III (trasformato in albero) e cioè briganti, nobili borbonici (raffigurati dalla maschera napoletana del pazzariello), il clero e il papa. Sullo sfondo appare Garibaldi che a Caprera ara un campo, come Cincinnato

Fare gli italiani


Indipendentemente dalle rivolte popolari, fu subito chiaro che uno dei compiti urgenti del nuovo governo era quello di far nascere un’identità italiana in una popolazione che fino allora aveva vissuto in stati diversi ed era differente per lingua, storia, tradizioni. Bisognava far crescere il senso e l’amore per la patria, dato che solo pochi, e quasi solo di provenienza urbana, avevano partecipato attivamente alle lotte per l’indipendenza.

Per costruire questa identità comune furono scelti in particolare due strumenti: la scuola elementare, obbligatoria per i primi due anni, per imparare l’italiano e avere una preparazione di base comune, e il servizio di leva, che toglieva i giovani dalla propria regione facendogliene conoscere altre e dava il senso di far parte di un unico esercito in difesa della patria.

Cemento unificante del nuovo Stato, poi, divenne il mito del Risorgimento alla cui costruzione contribuirono i principali artisti dell’epoca: poesie e romanzi, quadri, monumenti, nomi dedicati a edifici, strade, piazze servirono a raccontare i principali eventi della lotta appena conclusa per l’unità e l’indipendenza, a celebrarne gli eroi, i martiri e specialmente il nuovo re. Presentato come coraggioso, saggio, abile nell’arte di governo, paterno, caritatevole, vero autore dell’unità, Vittorio Emanuele II divenne il principale simbolo dell’Italia unita, da preferire a Garibaldi, troppo rivoluzionario, troppo imprevedibile, troppo amato da repubblicani e democratici. 

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Il monumento di Vittorio Emanuele II realizzato da Augusto Rivalta, in piazza dell’Unità a Livorno 

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