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Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - L'impresa dei Mille - 3.2 SOGGETTI e PROTAGONISTI - Le biografie - Giuseppe Garibaldi

Giuseppe Garibaldi

Garibaldi fu sicuramente la figura più affascinante del Risorgimento italiano, il combattente generoso e fortunato che mise la sua spada al servizio della causa nazionale italiana e che corse in soccorso di altri popoli oppressi. Intorno a lui e ai suoi uomini si creò un vero e proprio culto, un mito che, in momenti successivi della storia d’Italia, ispirò molti altri combattenti che non esitarono a definirsi “garibaldini”.
Questa è una breve storia della sua vita avventurosa. Molte notizie su di lui, sulle sue idee, sul suo modo di combattere, sul rapporto con gli amici e i nemici si possono trovare nei diversi moduli di questo testo.

La giovinezza da marinaio

Giuseppe Garibaldi nacque a Nizza il 4 luglio 1807, secondogenito di sei figli di una famiglia ligure che era emigrata a Nizza anni prima. In quel momento Nizza era francese, ma dopo il Congresso di Vienna del 1815 fu restituita al Regno di Sardegna. Per questo le lingue che usò fin dall’infanzia furono il dialetto ligure locale e il francese. Solo in seguito imparò l’italiano. Nel corso della sua vita avrebbe poi imparato altre lingue, tra cui lo spagnolo, il portoghese e l’inglese.

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La madre di Garibaldi, Rosa

La madre Rosa aveva un carattere dolce e protettivo e Garibaldi ebbe per lei una vera venerazione. Il padre, proprietario di un vascello usato per il trasporto e la pesca, avrebbe desiderato che il figlio diventasse avvocato, medico o sacerdote, ma Giuseppe preferiva la vita di mare allo studio e, anche se con fatica, riuscì a convincere la famiglia.

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Garibaldi fanciullo salva una donna dall’annegamento

A sedici anni iniziò la sua carriera di marinaio su diverse barche che viaggiavano lungo le coste italiane e nel mediterraneo orientale. In questi viaggi acquisì le nozioni di matematica, geometria e astronomia necessarie al mestiere di marinaio, ma si appassionò anche alla storia e alla letteratura, leggendo di tutto nelle lunghe ore di navigazione. Non era un intellettuale, ma neppure un ignorante, come in seguito cercarono di dipingerlo i suoi nemici. La sua cultura era legata ai suoi interessi e alle sue passioni, come quella delle poesie e dei canti popolari, non era approfondita, ma varia e questo gli permise in seguito di conversare con persone dei diversi ceti sociali e, per ben due volte, di guadagnarsi il pane facendo il maestro elementare.

La scoperta di una vocazione

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Nel 1832 prese il diploma di capitano di lungo corso. Intanto aveva sviluppato un carattere amante del rischio e dell’avventura; per tre volte la nave su cui viaggiava fu assalita dai pirati e fu questa la sua prima esperienza di combattimento. Conobbe tante città, tanti amici e anche tanti popoli che lottavano per la loro indipendenza. Venne in contatto con idee di giustizia e di fratellanza universale che colpirono fortemente il suo animo sensibile e generoso. Cominciò così a formarsi in lui la volontà di combattere per la libertà dei popoli oppressi e per questo fu molto influenzato dalla propaganda mazziniana che circolava tra i marinai che, proprio perché passavano di porto in porto, potevano diffondere clandestinamente la stampa rivoluzionaria. Le sue vaghe idee di giustizia si andarono precisando nella volontà di lottare per l’indipendenza e l’unità dell’Italia.
In quegli anni non conobbe Mazzini, anche se molte biografie successive raccontano che Garibaldi fu iniziato alla Giovane Italia da Mazzini stesso, ma divenne amico di molti mazziniani e nel 1834, mentre era da poco arruolato per prestare il servizio militare obbligatorio nella marina militare del Regno di Sardegna, cominciò a far propaganda per le idee patriottiche, attirando l’attenzione della polizia con il suo comportamento troppo ingenuo. Nel febbraio, dato che i mazziniani avevano deciso un’insurrezione popolare a Genova e nella Savoia, si allontanò dalla sua nave senza permesso per unirsi alla rivolta; ma questa fu subito domata e Garibaldi riuscì a salvarsi a stento scappando in Francia attraverso i monti. Condannato a morte come nemico dello Stato, per qualche mese viaggiò sotto falso nome su una nave francese; poi decise di partire per il Sud America per cercare di propagandare anche lì il pensiero mazziniano.

Garibaldi da giovane

Marinaio, pirata e combattente in Sud America

Arrivato a Rio de Janeiro in Brasile si integrò rapidamente nella comunità di italiani, tra cui c’erano molti esuli politici mazziniani, e impiantò un piccolo commercio tra i porti della zona.
Nel 1837 iniziò a collaborare con il governo della Repubblica riograndense (ora Rio Grande do Sul), che si era ribellata all’Impero brasiliano e lottava per essere indipendente. Ottenne una patente di corsa, cioè una lettera ufficiale che lo autorizzava ad attaccare le navi mercantili brasiliane. Divenne quindi un corsaro su una barca, battezzata Mazzini, il cui acquisto era stato possibile grazie al denaro dei patrioti italiani in sud America. Con questa attaccò alcune navi brasiliane, liberando gli schiavi neri. Non sempre andava bene, infatti fu ferito, catturato e tenuto in prigione per due mesi. Liberato fu messo al comando delle forze navali riograndesi con cui sostenne diverse battaglie sia navali che terrestri, imparando a usare tattiche militari originali e adatte ad affrontare un nemico superiore per uomini e per armamenti, che gli furono utilissime nella sua successiva vita di combattente. La fama delle sue vittorie cominciò a circolare e lo si descriveva come uomo capace di qualunque impresa.
Nel 1840 si trasferì a Montevideo in Uruguay con la moglie Anita, che aveva conosciuto in Brasile, e il primo dei loro quattro figli (una morì dopo pochi mesi), facendo vari lavori per mantenere la famiglia. Nel paese era in corso una guerra civile tra un partito progressista, che era al potere, e uno conservatore, che aveva chiesto aiuto al dittatore della vicina Argentina. Quando nel 1843 Montevideo venne assediata dagli argentini, gli uruguaiani chiesero aiuto agli stranieri residenti. Si formò quindi una Legione italiana, capitanata da Garibaldi. La divisa della Legione italiana era una camicia del panno rosso a buon prezzo, destinato ai macellai di Buenos Aires, che diventerà la divisa di tutti i garibaldini; la bandiera era un drappo nero per indicare le sventure dell’Italia, con il Vesuvio in eruzione per significare il sacro fuoco della libertà. Per loro infatti, combattere i tiranni in terra straniera voleva dire combattere per la «causa santa dell’umanità».
Garibaldi e la Legione italiana furono impegnati per anni in moltissime battaglie e le loro vittorie furono fatte conoscere in Italia e utilizzate dalla propaganda mazziniana come esempio della capacità degli italiani di combattere per la libertà.

Il ritorno in Italia

Nel 1847 la guerra in Uruguay si trascinava lentamente e Garibaldi era molto deluso per la corruzione e le discordie interne che vedeva intorno a sé: lui, infatti, aveva sempre rifiutato premi o vantaggi economici e viveva miseramente, non riuscendo quasi a mantenere la famiglia.
Per cui, quando nel 1848 gli arrivarono le notizie sui moti rivoluzionari in tutta Europa, decise di tornare in patria. Spediti la moglie e i figli a Nizza dalla madre, partì con molti membri della Legione italiana per combattere per l’indipendenza e l’unità d’Italia.
Appena arrivato si presentò al re Carlo Alberto, che guidava la Prima guerra d’indipendenza, ma questi lo trattò freddamente: lui e tutti gli alti ufficiali piemontesi lo consideravano un pirata, un guerrigliero, disprezzavano che non avesse fatto l’accademia militare ed erano gelosi della sua abilità nel combattere. Garibaldi allora si mise al servizio del governo provvisorio di Milano e cercò di resiste anche dopo la sconfitta di Custoza; ma poco dopo dovette rifugiarsi in Svizzera con i pochi uomini che gli erano rimasti.
Nel 1849, alla ripresa della guerra, accorse subito, chiamando a sé nuovi volontari e, dopo la nuova sconfitta, si recò a combattere per la Repubblica Romana minacciata dai francesi che difendevano gli interessi del papa. Al comando delle truppe repubblicane resistette per un mese all’assalto francese, poi con i compagni rimasti uscì da Roma, dirigendosi verso Venezia che ancora resisteva. Ma presto furono intercettati, per cui dovette sciogliere il gruppo. Anita che era con loro morì e lui, aiutato da molte persone che rischiarono la vita per salvarlo, riuscì a mettersi in salvo con un solo compagno rimastogli vicino

Gli anni dell’unificazione dell’Italia

Negli anni seguenti, di nuovo esule, viaggiò in varie parti del mondo tra cui negli USA, dove lavorò nella fabbrica di candele di Antonio Meucci, un rivoluzionario toscano esule a New York, famoso perché fu l’inventore del telefono.
Nel 1854, quando il governo piemontese gli permise di tornare a Genova, comprò un terreno nell’isola di Caprera dove impiantò una fattoria che divenne la residenza sua e dei figli: divenne quindi agricoltore e allevatore, anche perché frequenti e dolorosi attacchi di artrite lo avevano reso inadatto al mestiere di marinaio.
Intanto si era allontanato da Mazzini, che giudicava troppo legato inflessibilmente alle sue teorie e troppo disposto a sacrificare vite di patrioti in missioni senza possibilità di successo. Lui, invece, benché fosse repubblicano, era arrivato alla conclusione che l’Italia avrebbe potuto raggiungere l’indipendenza e l’unità solo con l’appoggio della monarchia sabauda che poteva garantire legittimità al processo di unificazione. Appoggiò quindi la Società Nazionale che aveva per motto «Italia e Vittorio Emanuele», anche se per questo fu criticato da molti patrioti democratici. Incontrò il re piemontese, che gli parve una persona di cui ci si poteva fidare perché, dopo il fallimento della Prima guerra d’indipendenza, aveva mantenuto la Costituzione e la libertà di stampa e accoglieva gli esuli sfuggiti alle persecuzioni dei loro sovrani. Cavour invece gli fu sempre odioso non solo per la diversità di carattere, ma perché aveva ceduto Nizza alla Francia.
In vista della ripresa della guerra contro l’Austria nel 1859, fu messo a capo dei Cacciatori delle Alpi, un corpo di volontari inserito nell’esercito piemontese, con cui partecipò alla Seconda guerra d’indipendenza. Certo Cavour e i comandi militari non si fidavano di lui, ma non potevano fare a meno della sua abilità e della fama che lo circondava e che portava l’opinione pubblica in Italia e all’estero a sostenere la causa nazionale.
Nel maggio del 1860, appoggiato segretamente dal Piemonte, partì con i Mille alla conquista del Regno delle Due Sicilie che in novembre consegnò al re Vittorio Emanuele. Come sempre, rifiutò qualunque forma di ricompensa e si ritirò a Caprera, con molti dubbi sul tipo di Italia che aveva aiutato a costruire. Scrive Giuseppe Cesare Abba nelle sue memorie sull’impresa dei Mille:

Così si andò verso il Palazzo reale, a sfilare dinanzi al Dittatore piantato là sulla gran porta, come un monumento. E si sentiva che quella era l’ultima ora del suo comando. Veniva la voglia di andarsi a gettar a’ suoi piedi gridando: Generale, perché non ci conducete tutti a morire? La via di Roma è là, seminatela delle nostre ossa! […] Il Generale, pallido come forse non fu visto mai, ci guardava. S’indovinava che il pianto gli si rivolgeva indietro e gli allagava il cuore. […] Ora odo dire che il Generale parte, che se ne va a Caprera, a vivere come in un altro pianeta; e mi par che cominci a tirar un vento di discordie tremende.

Un uomo affascinante

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Garibaldi non era molto alto (un metro e 66 centimetri), largo di spalle e di torace, con le gambe un po’ arcuate, ma possedeva un insieme di agilità e forza che gli permetteva di nuotare, cavalcare, saltare, tirare di carabina, di sciabola, di pugnale con grande abilità. Il volto era sicuramente piacevole: fronte ampia, occhi castano chiari, capelli biondi portati sempre lunghi, barba rossiccia, naso greco. La camicia rossa, un poncho sudamericano e un fazzoletto legato al collo era il suo abbigliamento abituale. Ma il suo fascino non derivava tanto dall’aspetto fisico quanto dal suo modo di fare: gentile e generoso, di maniere aperte e cortesi, era totalmente disinteressato alle comodità, alle ricchezze e agli onori.
Si capiva che le sue idee di giustizia e uguaglianza tra gli uomini erano fermissime e che era disposto a morire per i suoi ideali. Condivideva con i suoi soldati tutti i pericoli e i disagi, si preoccupava di loro ed era pronto a lodarli e a premiarli, ma era anche estremamente severo con chi si macchiava di viltà, oppure derubava o maltrattava la popolazione. Era abituato a comandare e a essere obbedito prontamente. Infatti le sue battaglie non erano mai combattute secondo piani preordinati, perché Garibaldi guidava le sue truppe secondo lo stimolo e le esigenze del momento, per istinto e intuizione.

Il suo modo di combattere era caratterizzato dallo studio del terreno con un cannocchiale, dalla valutazione delle forze del nemico, dalla rapidità nelle risoluzioni, dalla tenacia nell’esecuzione (si diceva che i garibaldini non arretrassero e non si arrendessero mai…), dall’obbedienza cieca. Scrive Giuseppe Bandi, che combatté al suo fianco nell’impresa dei Mille:

Io non seppi mai immaginare uomo più terribile di Garibaldi adirato, sebbene ei fosse nelle sue ire temperatissimo e incapace di torcere un capello al suo prossimo. Ma appunto quella moderazione, quella padronanza de’ suoi impeti faceano sì che egli esercitasse una potenza misteriosa e irresistibile su quanti lo vedeano adirato.

 

Questo fascino personale e la sua capacità di comando gli garantivano un ascendente totale sui suoi uomini che erano disposti a fare qualunque sacrificio per lui e non potevano sopportare un suo rimprovero. Sapeva catturare il rispetto e la simpatia anche dei nemici e aveva una grande capacità di presa sulle masse a cui parlava con la semplicità dell’uomo del popolo. Ovviamente era invece odiato da tutti quelli che si sentivano minacciati dalle sue idee e dalle sue azioni: le gerarchie ecclesiastiche, i comandi militari, i conservatori.

Garibaldi, le donne e gli amici

Si sposò tre volte. La prima nel 1842 con Anita, il suo grande amore, che lo seguiva in battaglia e in tutte le sue diverse avventure. La seconda nel 1860 con la marchesa Giuseppina Raimondi, ma subito dopo la cerimonia scoprì che lei aspettava un figlio da un altro, per cui la ripudiò, anche se dovette attendere il 1879 per vedere annullato il matrimonio. La terza volta fu con Francesca Armosino, con cui convisse per anni fino alla morte e che gli dette tre figli. Nel 1859 ebbe anche una figlia da Battistina Ravello, che lo serviva a Caprera.
Dopo la morte di Anita, frequentò diverse donne che lo amarono e lo aiutarono, per esempio prendendosi cura dell’educazione dei figli. Attraente nell’aspetto e modello di eroe romantico, faceva molta presa sulle donne, che gli spedivano lettere ammirate e appassionate chiedendo un ricciolo dei suoi capelli. Alberto Mario racconta che persino le monache di Palermo lo avevano coperto di doni e di baci perché «somiglia a nostro Signore».
Ebbe molti ammiratori, ma specialmente degli amici sinceri, pronti ad accorrere al suo fianco per ogni nuova impresa e che si facevano in quattro per fargli piacere. Scrive Giuseppe Bandi nelle sue memorie:

Dove alloggiava Garibaldi, potea accadere facilmente che mancasse il pane, il vino, la carne ed anco il sale, ma non accadde mai che mancasse il caffè. Quell’uomo, solito a vivere con tre o quattro picce di fichi secchi, e con una meluzza acerba, o con pochi chicchi di formentone avrebbe sofferto le pene atroci d’inferno, se gli fosse mancata una tazza di caffè. Sapendo questo, era sempre nostra cura il provvedergli il caffè, anche se, per averlo, fosse stato necessario il correre a cercarlo in mezzo al fuoco o qualche miglio in mezzo all’acqua.

Durante i lunghi periodi in cui restò a Caprera in un esilio volontario, gli amici lo andavano a trovare discutendo e facendo progetti per l’Italia, ma anche condividendo la sua semplice vita di agricoltore.
E con gli amici preferiva stare, piuttosto che nel lusso della corte. Scrive Giuseppe Cesare Abba che, dopo la parata in cui Garibaldi accolse Vittorio Emanuele e gli consegnò il Regno delle Due Sicilie, «Ieri il Dittatore non andò a colazione col Re. Disse di averla già fatta. Ma poi mangiò pane e cacio conversando nel portico d’una chiesetta, circondato dai suoi amici, mesto, raccolto, rassegnato».

Roma o morte

Dopo la proclamazione del Regno d’Italia, Garibaldi fu eletto nel Parlamento, capo riconosciuto da tutti i democratici. Ma la politica non faceva per lui e in genere non partecipò ai lavori parlamentari. Intervenne una volta alla Camera dei Deputati provocando quasi uno scandalo: si discuteva della sorte dei garibaldini, che il governo e i comandi militari non desideravano far entrare nell’esercito regolare e volevano liquidare con una piccola pensione insufficiente per vivere; Garibaldi entrò in aula con la camicia rossa e il poncho, attaccò duramente il governo e il suo operato tra gli applausi del pubblico e le proteste dei parlamentari della destra. Alla fine però ottenne che buona parte degli ufficiali garibaldini fossero inseriti nelle forze armate.
Intanto la sua fama era alle stelle: il console statunitense gli chiese di partecipare alla guerra di Secessione tra il Sud schiavista e il Nord abolizionista, patrioti ungheresi e polacchi gli proposero di andare a combattere per la loro indipendenza. Ma il pensiero di Garibaldi era sempre per il Veneto e Roma che ancora mancavano per completare l’unificazione italiana.
Nel 1862 decise di ritentare un’impresa come quella dei Mille per liberare Roma, ma il momento non era più favorevole e, per evitare incidenti diplomatici con la Francia, l’esercito fu mandato contro di lui e i suoi volontari. All’Aspromonte, in Calabria, ci fu un breve scontro e Garibaldi fu seriamente ferito a una gamba. Fu arrestato, ma l’opinione pubblica era troppo dalla sua parte per cui presto fu liberato, ma la gamba richiese molto tempo per guarire.

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Gerolamo Induno, Garibaldi ferito all’Aspromonte, olio su tela, 1862 circa

Nel 1866, quando l’Italia entrò in guerra contro l’Austria per conquistare il Veneto, Garibaldi accorse subito con i suoi volontari, nonostante la vecchiaia e l’artrite, e le sue furono le uniche vittorie italiane in quella guerra condotta male.
Nel 1867 riprovò ancora a prendere Roma. Ma anche questa volta il re e il governo non lo sostennero e fu di nuovo fermato a Mentana dalle truppe francesi che anche questa volta erano accorse a difendere il papa.

Leone vecchio ma non domato

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Tra un’azione e l’altra rimaneva confinato a Caprera, ma sempre in contatto con il mondo attraverso la corrispondenza e gli amici che lo venivano a trovare. Fisicamente era molto malandato, ma quando i prussiani invasero la Francia nel 1870, subito si dichiarò disponibile ad andare a combattere in aiuto al popolo francese. Fu messo al comando dell’armata di volontari e con questa vinse alcune battaglie prima della sconfitta definitiva della Francia. Negli anni seguenti scrisse e intervenne pubblicamente contro la guerra, i privilegi e il potere dei preti e in favore del suffragio universale. I suoi ideali erano solo genericamente umanitari, ma la sua fama era tale che trecento associazioni, circoli e società operaie lo nominarono presidente onorario.
Morì nel 1882 e i suoi funerali furono un’altra occasione di scontro tra la destra e la sinistra. Garibaldi, che era massone e anticlericale, voleva essere sepolto a Caprera senza preti e senza le autorità. Ma la famiglia dovette accettare che al funerale sull’isola oltre ai garibaldini partecipassero principi, ministri e generali e che successivamente si tenesse a Roma un’imponente cerimonia. Ormai Garibaldi sarebbe diventato uno dei padri della Patria, un simbolo intorno a cui riunire gli italiani nei difficili anni del dopo unità.

Garibaldi, anziano, con la moglie Francesca Armosino e i figli Clelia e Manlio

Il mito di Garibaldi

Molto amato e molto odiato e temuto, Garibaldi fu sicuramente la figura più conosciuta del Risorgimento italiano e il suo contributo all’unificazione dell’Italia fu immenso.
Fin dall’inizio la sua figura e le sue gesta furono circondate da una leggenda che lo accompagnò durante la vita e che è rimasta viva anche negli anni successivi.

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