Guida alla Lettura
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Fonti consultate
L’impianto manualistico serve poco
L’impianto manualistico serve poco
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Bersaglieri e corazzieri
Fare l'Italia, fare gli italiani
Il processo di unificazione nazionale
Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - Il completamento dell’unità e la costruzione dello Stato - 2 SPAZI, TEMPI, EVENTI - 2.5 La fine del potere temporale dei papi: Italia e contesto europeo - Roma capitale: speculazione edilizia e scandali bancari (G. Ruffolo)
Roma capitale: speculazione edilizia e scandali bancari (G. Ruffolo)
In queste pagine Giorgio Ruffolo descrive i cambiamenti che investirono Roma nel passaggio da città del papa a
capitale del Regno d’Italia, cambiamenti che in un paio di decenni ne trasformarono profondamente l’impianto
urbanistico e la composizione demografica e sociale.
L’articolo del «Corriere della Sera» del 20-21 gennaio 1893, in cui si annuncia l’arresto di Bernardo Tanlongo, governatore della Banca romana, e del capo cassiere Lazzaroni
Nel 1870 Roma contava 552.000 abitanti, addensati nell’ansa del Tevere. Monumenti e rovine, palazzi e chiese
sontuosi, vie strette e tortuose, una massa di case e casupole addensate disordinatamente attorno a rare piazze.
Un’umanità discretamente cenciosa: mendicanti, storpi e pitocchi dappertutto. Dal Rinascimento in poi la città non
aveva conosciuto il piccone e la costruzione di opere nuove.
Non furono, però, i piemontesi a mettere le mani sulla città. Solo pochi anni prima del loro arrivo, fu un prelato belga,
Francesco Saverio de Merode, figlio di un ministro ed ex soldato della legione straniera, protetto dal papa Pio IX,
sostenuto dai gesuiti e rivale del cardinale Antonelli, a «sventrare» Roma, progettando e realizzando ambiziosi piani
urbanistici. [...] Il suo piano era quello di «hausmaniser Rome»: di ricostruire la città come il prefetto Hausmann aveva
fatto a Parigi, rivoltandola come un guanto. Proprio nei cinque anni che precedettero la breccia di porta Pia, aveva
cominciato a realizzare i suoi vasti progetti. Acquistò villa Strozzi, sul cui terreno fu edificato il Costanzi, poi teatro
dell’Opera. Sgombrata l’area circostante le terme di Diocleziano, costruì la stazione di Roma. Sventrò i quartieri che
stavano fra la nuova stazione e il centro della città, aprendo la grande arteria di via Nazionale, che si chiamò, allora, via
De Merode. Cominciò a realizzare il grande progetto dei Prati di Castello, portato avanti poi dal Comune di Roma. E
continuò a operare come finanziere e imprenditore edile a Roma, sotto il governo italiano, fino al 1874, anno della sua
morte. La ristrutturazione di Roma cominciò, dunque, prima che vi giungesse l’«orda degli speculatori».
Come realtà sociale, Roma era allora un popolo miserabile ma assistito, dominato da un’onnipotente gerarchia
ecclesiastica. In mezzo, un ceto di «mercanti di campagna», essenzialmente grandi affittuari dei latifondisti ecclesiastici
e aristocratici. [...] L’80% della proprietà era nelle mani del clero, nelle sue varie articolazioni: cardinali e alti prelati,
conventi, congregazioni. Il resto era nelle mani della grande nobiltà.
I “piemontesi” soppressero o espropriarono 134 delle 221 case religiose esistenti, e procedettero all’assegnazione del
loro immenso patrimonio. Entro il 1877, l’80% del patrimonio era stato liquidato. Per la maggior parte, era stato
acquistato dai mercanti di campagna, che se ne infischiarono della scomunica di Pio IX. I principali proprietari d’immobili
nella città restarono comunque le grandi famiglie: gli Odescalchi, i Doria Pamphili, i Pallavicini.
Il primo sviluppo urbanistico postunitario fu fortemente condizionato dalle scelte di De Merode: stazione, via Nazionale
e adiacenze, Prati di Castello. L’altra principale direttrice riguardò la sistemazione dei grandi ministeri, lungo l’asse della
“liberazione”, da porta Pia al Quirinale (via XX Settembre): Finanze, Agricoltura, Guerra. Per tutti gli anni Ottanta, Roma
divenne un cantiere. La speculazione edilizia assunse proporzioni colossali. Bastava comprare aree fabbricabili, contraendo prestiti anche ad alto tasso d’interesse, per realizzare in pochi mesi guadagni del 200 e del 300%.
Su questo mercato aureo si costruì la fortuna, e poi si consumò la rovina, delle prime grandi banche italiane. Erano
pesantemente coinvolte nella compravendita dei terreni la Banca Tiberina e la Società dell’Esquilino, rispettivamente
legate a grandi istituti di credito piemontesi. E, soprattutto, la Banca Romana, ex Banca Pontificia, che si era lanciata in
una dissennata ridda speculativa.
[...]
Lo scandalo della Banca Romana, che fu a un passo da travolgere governo e Parlamento, nacque nel 1889. I prezzi
delle case crollavano, e le banche più coinvolte entravano in crisi. Il ministro dell’Industria Miceli ordinò un’ispezione
sulla situazione delle banche di emissione (allora erano sei, e la Banca Romana era una di quelle). Ne affidò l’incarico a
un senatore e a un alto funzionario del Tesoro. I risultati dell’indagine, che era stata considerata di normale
amministrazione, furono sconvolgenti. Risultò che il Tanlongo e il cassiere della Banca Lazzaroni [...] avevano fatto
stampare a Londra, da una ditta inglese, biglietti falsi: anzi, verissimi (la Banca era autorizzata a farlo), ma con il numero
di vent’anni prima, felicemente regnante il papa. Si trattava di nove milioni di lire, che servivano sia per coprire
ammanchi speculativi, sia per finanziare personaggi politici.
Questa bomba fu tenuta segreta (il ministro si giustificò poi con la motivazione del discredito internazionale che ne
sarebbe risultato). Ma il senatore Alvisi, poco prima della sua morte, per sgravarsi la coscienza aveva consegnato una
copia della relazione all’economista Leone Wollemborg, il quale la consegnò a Maffeo Pantaleoni, che a sua volta la
fece avere a Napoleone Colajanni, deputato dell’estrema sinistra. Il 20 dicembre 1892 Colajanni, in una seduta della
Camera, rese pubblico il contenuto della relazione. L’emozione fu enorme. Ci si chiese subito chi fossero gli uomini
politici, cui si alludeva: Giolitti, allora presidente del Consiglio? Crispi, suo rivale? Tanlongo, arrestato subito dopo, disse
ai giudici che tutti i presidenti del Consiglio, dal 1865 in poi, avevano ricevuto soldi.
Giolitti, personalmente implicato, dovette dimettersi e fuggì in Germania, a casa della figlia, nel timore di essere
arrestato. Ma prima consegnò alla Camera un dossier, che conteneva documenti compromettenti non solo per Crispi,
che avrebbe ricevuto denaro dalla Banca, ma anche per sua moglie, quella Lina Barbagallo, avida di lusso, per la quale
aveva abbandonato la seconda moglie e affrontato l’accusa di bigamia, e che lo tradiva con il maggiordomo, cui erano
indirizzate un centinaio di lettere infocate. Giolitti, in quell’occasione, non esitò ad affondare il Parlamento, il paese, e se
stesso nella vergogna. Subito dopo il re, anche lui abbondantemente compromesso dallo scandalo (attraverso il ministro
della Real Casa) sciolse il Parlamento, indicendo nuove elezioni. Lo scandalo si chiuse vergognosamente, com’era
cominciato: con l’assoluzione di Tanlongo e di Lazzaroni dall’accusa di «circolazione abusiva di biglietti di banca».
Evidentemente, non era abusiva!
L’Italia sembrò sprofondare sotto lo scandalo. Altre grandi banche vennero coinvolte. Il direttore del Banco di Napoli
Cuciniello fu arrestato, mentre scappava dalla casa dell’amante vestito da prete. E qualcuno collegò l’assassinio dell’ex
direttore del Banco di Sicilia Notarbartolo.
[...]
Per fortuna, non tutte le risorse erano state bruciate dalla speculazione edilizia, il che spiega la relativa tenuta
dell’economia italiana. Pure, quelle furono sufficienti per travolgere il sistema creditizio, che dovette essere
completamente ristrutturato. Nel 1893, la fusione di tre banche di emissione, la Banca Nazionale del Regno, la Banca
Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito diede vita alla Banca d’Italia, segnando una svolta nella storia della
finanza italiana, concentrando le emissioni, e quindi consentendo una gestione unitaria della circolazione monetaria.
Da Ruffolo G., Un paese troppo lungo: l’unità nazionale in pericolo, Einaudi, Torino 2009, pp. 155-160.
Guida alla Lettura
1) In quale periodo, con quali governi e con quale ruolo Francesco Saverio De Merode lavora al riassetto urbanistico della città di Roma?
2) Che cosa significa che il piano di De Merode era di «hausmaniser Rome»?
Puoi consultare in proposito l’unità Francia: la politica interna nel modulo 4.
3) Osserva la mappa del piano regolatore di Roma del 1883. Individua e colloca gli interventi di De Merode: via Nazionale, la nuova stazione, il teatro Costanzi (poi dell’Opera), i Prati di Castello.
Individua e colloca “l’asse della liberazione” con i principali ministeri. Vi è riconoscibile l’aumento delle aree edificabili? Spiega perché sì o perché no.
4) Qual era la composizione sociale della Roma papalina? Come e perché si trasforma dopo che Roma diventa la capitale del Regno d’Italia (1871)?
5) Chi guadagna e chi perde, ovvero quali ceti sociali si avvantaggiano e quali invece ci rimettono, con l’esproprio dei beni ecclesiastici e attraverso la speculazione edilizia che impera in Roma capitale? Confrontati con i compagni e, insieme, spiegate il fenomeno della speculazione edilizia: le sue cause e le sue conseguenze.
6) Il cosiddetto “scandalo della Banca romana” è noto per essere stato il primo caso di malaffare politico-finanziario del nuovo Stato italiano. In che cosa consisteva la truffa? A vantaggio di chi venne attuata? Perché, pur scoperta nel 1889, i cittadini ne vennero informati solo nel 1892? Come si giustificò il ministro dell’Industria che aveva ordinato i controlli?
7) Lo scandalo della Banca romana ti ricorda avvenimenti e personaggi di oggi? Esprimi un tuo giudizio sulla vicenda, sui politici e gli amministratori che ne furono coinvolti. Poi confrontati con i compagni.