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Giolitti e la sua politica nell’Italia postunitaria fra XIX e XX secolo

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Giovanni Giolitti (Mondovì, 27 ottobre 1842 – Cavour, 17 luglio 1928) fu Capo del Governo per ben cinque volte tra il 1892 e il 1921. Tra il 1901 e il 1903 non ebbe la carica di Capo del Governo ma ricoprì l’importante ruolo di Ministro degli interni nel governo guidato da Giuseppe Zanardelli.
In particolare il periodo dal 1901 al 1914 è denominato dagli storici età giolittiana, perché in quegli anni il prestigio di Giolitti e le sue scelte segnarono profondamente la vita politica, economica e istituzionale del Regno d’Italia, anche nei periodi in cui non ebbe in prima persona il ruolo di Capo del Governo.
A differenza di molti uomini politici del Regno d’Italia Giolitti non fu mai affiliato alla massoneria.

Giolitti: da funzionario del Regno a deputato e ministro


Giovanni Giolitti era nato in una famiglia borghese della provincia piemontese nel 1842. Entrò nella vita politica con l’elezione a deputato nel collegio di Dronero (CN) nel 1892, dopo una lunga carriera come funzionario nel Ministero della Giustizia, nel Ministero delle Finanze e nella Corte dei Conti.

Questi inizi nella burocrazia del Regno gli permisero una conoscenza approfondita delle istituzioni, delle leggi e dei regolamenti statali che gli garantiva competenze amministrative elevate, utili nel momento in cui bisognava dare attuazione a una nuova legge. Già come alto funzionario del Ministero delle Finanze, guidato da Quintino Sella, aveva preparato tra il 1870 e il 1877, una fondamentale riforma tributaria riorganizzando e unificando delle tasse fino ad allora riscosse con sette sistemi diversi, ancora risalenti agli stati preunitari.
Negli anni successivi all’Unità, nell’Italia liberale, deputati e senatori non ricevevano alcun compenso per la loro attività di parlamentari e questo faceva sì che solo coloro che avevano proprietà e rendite personali potevano sedere in Parlamento.

In effetti Giolitti non era povero, ma non godeva di rendite sufficienti a mantenere sé stesso e la famiglia. Il suo ingresso in politica fu favorito dal re Umberto I che lo nominò membro del Consiglio di Stato, carica pubblica ma non impiegatizia che comportava comunque uno stipendio annuo abbastanza elevato. Come molti uomini politici piemontesi Giolitti aveva una fedeltà profonda nei confronti della monarchia e dello Stato senza essere fanatico o conservatore. Faceva riferimento piuttosto ai principi di un liberalismo nel complesso progressista. La sua carriera politica era iniziata nelle file della Sinistra di Crispi ma se ne distaccò nel 1893 in relazione allo scandalo della Banca Romana. Sviluppò poi alleanze basate sul suo prestigio personale e diede vita ad uno schieramento politico detto Grande Centro, che cercava di isolare le ali estreme del Parlamento sia a destra che a sinistra.

Giolitti ministro e capo del governo: la politica economica


Durante l’età giolittiana le industrie dell’Italia settentrionale, in particolare del Triangolo industriale Milano-Torino-Genova, erano in una fase di sviluppo. Giolitti appoggiò questo sviluppo, favorì le opere pubbliche, riorganizzò le ferrovie, gestite fino ad allora da diverse società private, sostenne la conclusione dei lavori per il Traforo del Sempione, destinato a favorire gli scambi tra Italia e Nord Europa tramite la Svizzera, fece ampliare la rete idrica della Puglia con la costruzione dell’Acquedotto pugliese. In quegli anni nascevano la Fiat (automobili), la Pirelli (gomma), le Acciaierie Falk (acciaio e ghisa). Cresceva enormemente l’industria edilizia per lo sviluppo delle grandi città e della capitale. Giolitti favorì la raccolta dei risparmi e la concessione di finanziamenti da parte delle banche anche a favore della piccola proprietà vessata dalle tasse.

 

 

 


Giolitti ministro e capo del governo: la politica sociale


Allo sviluppo dell’industria corrispondeva la crescita della classe operaia e questo spesso portava a conflitti sociali. I governi precedenti avevano risposto alle mobilitazioni popolari con la repressione: in Sicilia nel 1894 le proteste dei Fasci siciliani erano state soffocate dall’esercito e nel 1898 le proteste contro il carovita nelle città erano state stroncate nel sangue. In particolare a Milano le manifestazioni erano state represse a cannonate dal generale Bava Beccaris: c’erano stati oltre 100 morti.
Giolitti, capo di governo dal 1892 al 1893, aveva rifiutato di firmare lo stato d’assedio per la Sicilia in cui già si mobilitavano i Fasci dei lavoratori. Era convinto che i lavoratori avessero diritto a migliori condizioni di vita e che dovessero avere la possibilità di organizzarsi e lottare per i propri diritti. 

Giolitti riteneva che il governo dovesse astenersi dall’intervenire nei conflitti sociali, se non per garantire l’ordine pubblico, ma che le controversie tra datori di lavoro da una parte e operai dall’altra dovessero essere regolate dalla contrattazione.
In effetti dal 1891 a Milano, Piacenza e Torino erano nate le prime “Camere del Lavoro” e nel 1906 le Camere del lavoro, le Leghe e le Federazioni decisero di confluire in una unica organizzazione la Confederazione Generale del Lavoro (CGdL). Pochi anni dopo, nel 1910, gli industriali fondarono la Confindustria per coordinare e difendere gli interessi padronali.
Giolitti cercò l’appoggio dell’ala moderata dei socialisti per garantirsi una maggioranza parlamentare e per dare attuazione a quelle riforme sociali in cui anch’egli credeva. I socialisti moderati, guidati da Turati diedero fino al 1912 un appoggio esterno al governo, senza accettare incarichi ministeriali, mentre i socialisti più radicali ed estremisti di Bissolati mantennero un’opposizione anche aspra al Governo.
Durante gli anni del governo di Giolitti furono varate norme per il diritto di sciopero e di organizzazione sindacale dei lavoratori, il riposo festivo, la regolamentazione del lavoro notturno, la tutela del lavoro dei fanciulli e delle donne, le pensioni di vecchiaia e di invalidità, la tutela della maternità. Grande attenzione Giolitti ebbe per l’istruzione e fin dai suoi primi governi intervenne più volte per ottenere miglioramenti di retribuzione per gli insegnanti.
La sua politica di non-intervento nelle lotte sociali fu poi messa alla prova dopo la fine della guerra nel biennio rosso del 1919-1920, durante l’occupazione delle fabbriche, che Giolitti affrontò durante il suo ultimo governo (giugno 1920 – luglio 1921).
Durante i suoi governi Giolitti dovette affrontare anche emergenze sanitarie (alcune epidemie di colera e quella di peste a Napoli nel 1900) e dovette affrontare anche una grave eruzione del Vesuvio nel 1906 e il devastante terremoto di Messina e Reggio Calabria nel 1908, con tutto quello che queste catastrofi comportarono di coordinamento delle operazioni di soccorso e di ricostruzione, almeno di strade ed edifici pubblici.

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I bersaglieri scavano tra le macerie del terremoto di Messina, in una fotografia di Luca Comerio

Giolitti ministro e capo del governo: la concezione della società e del ruolo delle istituzioni


Giolitti mantenne rapporti istituzionali e personali con i due sovrani che furono sul trono durante gli anni dei suoi governi: Umberto I, ucciso nell’attentato di Monza nel 29 luglio del 1900, e Vittorio Emanuele III, suo successore. Vedeva nella monarchia e nella figura del sovrano il simbolo e la garanzia della coesione dello Stato. Pagò anche un prezzo elevato a questa concezione in occasione dello scandalo bancario del 1893-1894 che lo allontanò da incarichi governativi per sette anni.

Lo scandalo della Banca Romana


Nel 1893 scoppiò lo scandalo della Banca Romana, un istituto di credito che aveva assunto le funzioni della banca dello Stato Pontificio: oltre a erogare prestiti la Banca Romana era una banca di emissione, cioè stampava carta moneta. La Banca in realtà stampò banconote doppie (quindi false) per cifre enormi. Nacquero voci, inchieste giornalistiche e parlamentari da cui emerse che anche uomini politici avevano ottenuto facili e ingenti prestiti dalla Banca che, grazie ai brogli, disponeva di molto denaro. Il presidente della Banca, Bernardo Tanlongo, fu arrestato e fece i nomi dei molti politici implicati, tra cui Crispi e la moglie. I prestiti furono in fretta restituiti e gli imputati di maggior rilievo finirono assolti.
Giolitti, che aveva ricevuto le carte dell’inchiesta parlamentare, aveva deciso di non renderle pubbliche, perché in esse emergeva anche un qualche coinvolgimento della casa reale ed egli voleva in ogni modo tutelare la monarchia.
Alcuni parlamentari della sinistra attaccarono duramente Giolitti; Crispi in particolare cercò di addossare a Giolitti, allora capo del governo, responsabilità che erano invece in gran parte sue. L’attacco politico era anche un modo per allontanare Giolitti da una posizione di potere, perché aveva avanzato l’ipotesi di un’imposta progressiva sul reddito. L’ imposta era malvista sia dagli industriali del nord sia dai latifondisti meridionali che già non gli perdonavano la mancata firma ai decreti per l’invio dell’esercito contro i Fasci siciliani. Oggetto di attacchi politici Giolitti si dimise e si presentò poi in una seduta del Parlamento per consegnare pubblicamente le carte in suo possesso. Crispi reagì in modo molto aggressivo denunciando per diffamazione Giolitti, che si allontanò addirittura dall’Italia raggiungendo la figlia che viveva a Berlino. Nei processi non erano emersi reati finanziari imputabili a lui, ma la sua carriera politica sembrava
comunque finita: non ebbe altri incarichi ministeriali per oltre sette anni.
Lo scandalo contribuì ad accelerare la riforma degli istituti bancari e la nascita della Banca d’Italia il 10 agosto 1893.

 

 

 


Giolitti ministro e capo del governo: l’ampliamento dell’elettorato


Nei primi anni del secolo si accese il dibattito sull’ampliamento della base elettorale: Giolitti, tornato al governo, si dichiarò a favore del suffragio universale maschile (che divenne legge nel 1912). Turati e altri deputati socialisti proposero anche il suffragio femminile e in effetti Giolitti, pur contrario, incaricò una commissione di studiare l’ammissione delle donne almeno al voto amministrativo, ma questa ipotesi decadde perché furono indette nuove elezioni.
La politica italiana era impoverita, dopo il 1870, dalla mancata partecipazione dei cattolici ai quali il papa aveva dato indicazione di non partecipare alla vita politica del Regno. Giolitti in materia di rapporti Stato-Chiesa seguiva gli stessi principi di Cavour, era cioè per la libertà e l’indipendenza di entrambi. Si doveva trovare una soluzione politica al problema e fu stabilito un accordo con l'Unione Elettorale Cattolica Italiana (U.E.C.I.), presieduta da Vincenzo Ottorino Gentiloni (di qui il nome di Patto Gentiloni), in vista delle elezioni politiche del 1913: lo schieramento liberale, di cui Giolitti era l’esponente più prestigioso, metteva a disposizione dei cattolici un buon numero di seggi e l’U.E.C.I. si impegnava a far confluire sui candidati più disponibili verso i valori e gli interessi della Chiesa i voti dei cattolici. Con questo accordo i cattolici iniziavano formalmente la propria partecipazione alla vita politica
del Paese. Giolitti in realtà aveva sollecitato questo accordo anche per contrastare la crescita del Partito Socialista.

 

 

 


Venti di guerra


Dal marzo 1911 al marzo 1914 Giolitti fu a capo del suo IV governo, un governo importante per il quale Giolitti ebbe anche il voto favorevole dei socialisti. Il suo programma prevedeva infatti il suffragio universale maschile che, divenuto legge nel 1912, fu applicato, per i maschi che avessero compiuto 30 anni, nelle elezioni del 1913. Giolitti fece approvare anche un provvedimento che prevedeva un'indennità mensile ai deputati. Questo consentiva anche a chi non aveva rendite di diventare deputato e contribuì, insieme al suffragio universale, all’elezione di un numero di deputati socialisti doppio rispetto alle elezioni precedenti.
Giolitti, che già in precedenza aveva favorito la diffusione delle assicurazioni, creò nel 1912 l'Ina (Istituto Nazionale delle Assicurazioni), un ente pubblico con il monopolio delle assicurazioni sulla vita: veniva così sottratto ai privati un ambito di attività finanziaria molto redditizio. 

In questi stessi anni diede attuazione alla riforma dell’istruzione (legge Daneo Credaro 1911), tesa a uniformare in mano allo Stato gli ordinamenti scolastici della scuola primaria, in precedenza diversi a seconda del comune: fu l’ultima riforma prima di quella fascista nota come Riforma Gentile.
Accanto a questi provvedimenti, che anche a distanza di tempo possono essere valutati come progressisti, Giolitti avviò anche imprese che oggi ci sembrano più discutibili. Nel novembre 1911 sostenne la scelta della guerra per la conquista della Libia. La spinta alla conquista di colonie in Africa coinvolgeva da oltre trent’anni molti paesi europei e l’Italia aveva dovuto già subire l’iniziativa francese. La stampa contemporanea aveva definito Schiaffo di Tunisi nel 1881 l’occupazione francese della Tunisia, un territorio su cui anche l’Italia aveva delle mire, per la sua vicinanza alla Sicilia.
Giolitti avviò la guerra sperando che questa riequilibrasse il clima politico in cui molti moderati erano preoccupati per l’avanzata socialista accentuata dal suffragio universale. In realtà i moderati non si placarono e crebbe invece la mobilitazione dei nazionalisti. La guerra costò molto più del previsto, Giolitti dovette chiedere fondi anche per consentire investimenti nella nuova colonia e perse così l’appoggio dei deputati radicali. Si dimise, anche perché ormai un gran numero di parlamentari e il sovrano stesso vedevano con favore la corsa agli armamenti e alla guerra.
Giolitti era contrario alla guerra sia per motivi etici ed ideali, sia per l’elevato costo che si preannunciava e che il paese non era in grado di sostenere, sia per valutazioni politiche: vicino al mondo politico tedesco pensava infatti che ci fossero margini per ottenere con le trattative gli obiettivi territoriali che gli interventisti si proponevano per l’entrata in guerra a fianco dell’Intesa.

Gli interventisti attaccarono duramente Giolitti per le sue posizioni neutraliste, bollandolo addirittura come servo dei tedeschi, traditore, fecero manifestazioni sotto le sue finestre, aizzati dai discorsi infiammati di Gabriele D’Annunzio, e tentarono di aggredirlo.
Pur non favorevole alla guerra, dopo che questa fu dichiarata, Giolitti sostenne lealmente con il proprio voto i governi del periodo 1915-1918.

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Una copertina della «Domenica del Corriere» con D’Annunzio che parla contro il giolittismo

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