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Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - Il contesto, gli attori, il perché del Risorgimento italiano - 3.1 SOGGETTI E PROTAGONISTI - I padri della Patria - Il pensiero politico di Mazzini

Il pensiero politico di Mazzini

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Domenico Lama, Ritratto di Giuseppe Mazzini

Le idee di Mazzini ebbero grande influenza nella promozione del “sentimento di patria” e nella definizione del concetto di democrazia. Il suo pensiero pesò, ben oltre la sua morte, nella formazione politica degli italiani e nella nascita di un moderno partito popolare e democratico. 
Vediamo insieme le tappe della sua elaborazione teorica.

La Giovane Italia e il suo programma

La Giovane Italia nasce dalla critica alle sette carbonare, che, secondo Mazzini, avevano fallito – nei moti del 1820 (Campania) e del 1821 (Piemonte) e in quelli di Modena del 1831 – per la contraddittorietà dei loro programmi e per la ristrettezza provinciale del progetto politico. 
Mazzini la fondò nel 1832, a Marsiglia, dopo essere entrato in contatto con il pensiero dei primi socialisti (Saint-Simon, Fourier, Owen: i cosiddetti utopisti) e con il movimento repubblicano guidato da Filippo Buonarroti (1761-1837), uomo-simbolo della tradizione giacobina e grande diffusore – attraverso la rete dei suoi affiliati e l’attività pubblicistica – dei principi democratici di libertà, uguaglianza, fratellanza universale. Tutti gli uomini, secondo il pensiero di Buonarroti, erano uguali e portatori degli stessi diritti, quindi i più deboli andavano tutelati dalla Repubblica che doveva assumersi il compito di ridistribuire le ricchezze accumulate dai pochi.

Se il programma della neonata organizzazione venne in certa misura influenzato dal rapporto con l’anziano rivoluzionario e con i suoi collaboratori e dal socialismo utopistico di Saint-Simon, possiamo però riconoscervi i tratti distintivi del pensiero politico mazziniano, soprattutto nell’idea che forma e modi dell’associazione fossero di per sé un potente strumento di progresso e di emancipazione.

  • Anzitutto il nome: Mazzini la chiamò Giovane Italia, perché potevano esservi ammesse solo persone al di sotto dei quarant’anni.

  • L’organizzazione era affidata a un centro direttivo all’estero (congregazione centrale) e a una serie di centri d’azione (congregazioni) provinciali in Italia.

  • Non si trattava di una società segreta, ma un’associazione che dichiarava apertamente le sue finalità rivoluzionarie.

  • I suoi motti erano «Dio e popolo e Unione», «Forza e Libertà».

  • Lo scopo era quello di liberare l’Italia dallo straniero e di unirla attraverso un’insurrezione popolare in un’unica repubblica con un governo centrale.

Mazzini, infatti, giudicava improponibile il progetto di uno Stato federalista: senza unità l’Italia sarebbe stata una nazione debole sia per la vicinanza di potenze quali l’Austria e la Francia sia per il probabile risorgere fra città e città di quelle rivalità che avevano caratterizzato la storia dell’Italia medievale.
Allo stesso modo considerava il superamento di un potere dispotico e assoluto a favore di una monarchia costituzionale solo come una fase transitoria in preparazione della repubblica, la forma di stato in cui popolo e nazione si sarebbero armonizzati, sotto il governo di leggi deliberate da un Parlamento eletto a suffragio universale e vigenti sul territorio nazionale.
Gli obiettivi politici dell’indipendenza, dell’unità e della libertà andavano raggiunti con una vasto movimento dal basso: la rivoluzione per avere successo non poteva essere condizionata dalla benevolenza di sovrani stranieri. Infatti, come si legge nel programma, «La Giovine Italia è decisa a giovarsi degli eventi stranieri, ma non a farne dipendere l’ora e il carattere dell’insurrezione»

L’insurrezione popolare è lo strumento per costruire un’Italia una, indipendente, libera e repubblicana e, quindi, è veicolo di emancipazione democratica e mezzo per l’affermarsi di una coscienza nazionale. A tal fine era necessario che la Giovane Italia da setta segreta, pur conservando le precauzioni necessarie per difendersi dalle polizie, si mutasse in una società capace di promuovere le sue parole d’ordine e di diffonderle fra tutti i ceti sociali, fra gli uomini e le donne che allora abitavano gli otto stati della penisola italiana. Per questo motivo l’educazione e l’insegnamento rappresentavano un punto essenziale del programma dell’associazione e, più in generale, del pensiero e dell’azione politica mazziniani.
Puoi leggere un estratto del programma dell’Associazione “Istruzione generale per gli affratellati della Giovane Italia”.
Su questi presupposti e grazie all’energia instancabile e al fascino personale di Mazzini, all’azione di propaganda e alla semplicità dei metodi cospirativi, la Giovane Italia si diffuse molto più rapidamente delle precedenti sette segrete in Piemonte, in Liguria, in Lombardia, in Toscana e in parte della Romagna, strutturandosi come il primo partito italiano nel senso moderno della parola, con parecchie migliaia di aderenti.
L’associazione entrò presto in crisi per i fallimenti che segnarono i vari tentativi di insurrezione ispirati o promossi dallo stesso Mazzini, ma l’idea di un’Italia solidale, democratica e repubblicana divenne il motore del processo di unificazione nazionale e continuò a scaldare il cuore dei patrioti, anche una volta raggiunta l’unità con l’intervento piemontese e sotto le insegne di casa Savoia.

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Frontespizio del periodico «La Giovine Italia»

La Giovane Europa e l’Alleanza dei Popoli

 

Espulso dalla Francia e rifugiatosi in Svizzera, Mazzini fondò a Berna, il 15 aprile 1834, la Giovane Europa, insieme a un esiguo gruppo di intellettuali italiani, polacchi e tedeschi in esilio. 
La nuova organizzazione aveva come motto «Libertà – Uguaglianza – Umanità» e intendeva riunire e coordinare i popoli europei che aspiravano all’indipendenza nazionale. Nella volontà dei suoi fondatori, aspirava a sostituire la Carboneria che, sotto la direzione di Buonarroti come Charbonnerie démocratique universelle, era rimasta ferma a un generico cosmopolitismo. Invece, secondo i principi mazziniani, le diverse organizzazioni nazionali, impegnandosi a operare per la libertà e l’indipendenza del proprio popolo, avrebbero contribuito nei fatti allo sviluppo democratico in Europa e al progresso dell’umanità.
Agli esuli polacchi (Giovane Polonia), tedeschi (Giovane Germania) e italiani (Giovane Italia) si aggiunsero anche cittadini svizzeri (Giovane Svizzera) nella costruzione di quel primo e ultimo nucleo della Giovane Europa, che, pur destinata a una brevissima vita, rappresentò un interessante esperimento di affermazione dei principi di fratellanza universale, un tentativo di organizzare una “santa alleanza” dei popoli in contrapposizione alla Santa Alleanza dei sovrani. (Infatti la nuova associazione – sottoposta al crescente controllo delle autorità svizzere pressate dai governi stranieri – cessò le proprie attività alla fine del 1836).
Mazzini riprenderà a lavorare per un’alleanza continentale dei popoli, dopo il fallimento della Repubblica Romana e il suo successivo rientro nell’esilio londinese. Nella capitale inglese sottoscriverà – il 22 luglio 1850 – con altri esuli di varie nazionalità il manifesto del Comitato Centrale democratico europeo. In questo documento si lanciava un appello perché «tutti i popoli che tendono a farsi nazione» riprendessero il cammino verso la democrazia. Il Comitato, sotto la direzione di Mazzini, si sarebbe curato della raccolta di fondi e dell’organizzazione di una rete internazionale. «Noi vogliamo costituire la democrazia europea; fondare il tesoro, la cassa dei popoli; ordinare l’esercito degli iniziatori. I popoli emancipati compiranno il lavoro». Il progetto, che resterà sulla carta, ci testimonia la chiara vocazione e visione europeista del nostro.

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Vista di Berna nel 1834

Pensieri sulla democrazia in Europa

 

Durante il lungo esilio londinese, Mazzini contribuì con un pensiero originale al dibattito politico del tempo. Con una serie di articoli – Thoughts upon Democracy in Europe, pubblicati fra il 1846-1847 sul «People’s Journal» – si rivolgeva infatti ai lettori inglesi per approfondìre la questione della democrazia in Europa. L’esule genovese, ormai molto noto e apprezzato, analizzava il tema e prendeva posizione verso le diverse impostazioni che – sul concetto e sulla pratica della democrazia – si confrontavano in quegli anni nel movimento progressista europeo.
Questi scritti saranno poi rielaborati in lingua italiana e pubblicati, dopo il biennio rivoluzionario 1848-1849.
Come mai, si domandava Mazzini, l’idea di democrazia suscita tanta ostilità non solo tra reazionari e conservatori, ma perfino tra i riformatori? Come mai ci sono persone che solo sentendone pronunciare il nome «vedono apparire il fantasma del 1793» e la identificano in «una ghigliottina sormontata da un berretto rosso»?
Eppure la partecipazione democratica alla vita politica, attuata attraverso il suffragio universale, necessario per la formazione di un “governo rappresentativo”, non solo è voluta dalla “legge del continuo progresso”, ma ha un valore morale e civile, perché, come insegna la dottrina cristiana, gli esseri umani sono uguali quanto a diritti e tutti legati da un vincolo di fratellanza universale. Se dunque la democrazia è giudicata con sospetto e avversione, ciò è dovuto non tanto al terrore e ai suoi eccessi sanguinari (che il nostro riteneva un incidente di percorso, non più ripetibile) ma soprattutto all’incapacità dei suoi sostenitori di spiegarne e farne condividere finalità e metodi. 
Lo sviluppo democratico è per Mazzini strettamente connesso con l’emancipazione delle classi popolari e con la loro volontà di prender parte alla vita politica del proprio paese. Ma questa “tendenza democratica” non mira a sostituire una classe sociale con un’altra classe sociale, come sostenevano i democratici comunisti, ma a sottrarre il potere politico a «una cerchia di privilegiati», per affidarlo alla «guida dei migliori e dei più saggi».
Se rifiutava la logica e la pratica della lotta di classe sostenuta dai comunisti, ugualmente Mazzini giudicava il liberalismo radicale di Fourier (che vedeva nella felicità il solo fine dell’uomo e nell’interesse individuale la leva del rinnovamento sociale) come un limite alla cooperazione solidale per il progresso umano. 
Per l’esule genovese il fine della democrazia è il progresso sociale, civile e culturale dell’umanità, che ha un suo punto d’appoggio nelle nazioni e coincide con il dovere dei singoli individui: il miglioramento morale di sé per gli altri e insieme agli altri.
Per raggiungere questo scopo i mezzi adeguati sono:

  1. l’associazione tra individui liberi e tra nazioni libere;

  2. il governo rappresentativo dei “migliori” scelti dal popolo con votazione a suffragio universale (anche femminile).

 

In polemica con il cosmopolitismo dei comunisti, Mazzini fondò – alla fine del 1846 – la Lega dei Popoli liberi e uguali (People’s International League), in cui il patto di associazione andava sottoscritto dai popoli e non dagli individui, come era la regola nelle organizzazioni democratiche internazionali. Nel linguaggio mazziniano «un popolo non è una classe, anche se si trattasse della più numerosa, esso le include, le comprende tutte […]. È un’associazione di uomini sopra un territorio determinato con una determinata lingua: è questo insieme che costituisce la nazionalità». Dunque la nazione come tramite verso il progresso dell’umanità, che è insieme il dovere di ciascuno e il fine di tutti.
Con questi articoli Mazzini si affermò come scrittore politico europeo. Nel quadro dei diritti tipico della Rivoluzione francese introdusse il concetto di dovere (oggi potremmo definirlo responsabilità) e individuò in una repubblica rappresentativa, ancorata a una Costituzione e a un Parlamento eletto a suffragio universale, la sola forma di governo in cui tutti i cittadini potevano avere garanzie di libertà e giustizia. Senza dubbio una concezione moderna ed europea di democrazia che di lì a poco Mazzini potrà mettere alla prova nell’esperienza breve ma significativa della Repubblica Romana.

La polemica con i socialisti

 

Dopo l’insuccesso della Repubblica Romana e il rientro a Londra Mazzini prenderà le distanze dal socialismo che condannerà esplicitamente in tutte le sue forme, ritenendolo responsabile degli insuccessi del 1848-1849. Attribuiva infatti quel fallimento al timore suscitato fra i borghesi e i moderati dalle teorie socialiste, timore che aveva finito con il favorire le forze più conservatrici e addirittura la restaurazione. Del resto il caso di Luigi Napoleone Bonaparte che, eletto presidente con suffragio universale nel dicembre 1848 con cinque milioni e mezzo di voti, aveva inviato le sue truppe contro la Repubblica Romana e che si sarebbe proclamato di lì a poco (1852) imperatore dei francesi con il nome di Napoleone III, sembrava dargli ragione.
I socialisti Louis Blanc, Blanqui e Proudhon risposero per le rime, a volte anche con attacchi personali, accusandolo di essere interessato soltanto alla questione della nazionalità (e quindi dell’unificazione italiana) e di non curarsi affatto della questione sociale e delle esigenze delle classi lavoratrici. In particolare Proudhon vedeva nella “nazione” un ostacolo alla formazione di un movimento operaio/popolare organizzato internazionalmente.
Nella polemica a un certo punto intervenne anche Marx che, dopo aver stigmatizzato la pochezza delle argomentazioni da ambo le parti, liquidò Mazzini con un epiteto pesantissimo: «L’imbecile!» (lettera di Marx a Engels del 30 marzo 1852).

Crisi del primato di Mazzini fra i democratici italiani

 

Contemporaneamente anche dal movimento democratico italiano piovevano critiche su Mazzini: Cattaneo, Pisacane,

Montanelli ne mettevano in discussione teorie e metodi.
A questo fuoco incrociato Mazzini risponderà riaffermando la sua fede nella nazionalità italiana e continuando a cercare occasioni perché la protesta e la rivolta potessero trasformarsi in quella insurrezione popolare che sola poteva condurre, secondo il suo punto di vista, all’unificazione nazionale e alla giustizia sociale. La sua regia è infatti riconoscibile nei moti di Milano (1853) e della Valtellina (1854) e, soprattutto, nella sfortunata spedizione di Carlo Pisacane del 1857.
Tuttavia mentre proseguiva la sua opera di promozione della causa italiana all’estero con interventi sui giornali, conferenze, pubblicazione di opuscoli o saggi in cui si serviva di un inglese molto efficace e assai apprezzato dai lettori madrelingua, in Italia la sua influenza politica veniva scemando. Si stava infatti facendo strada anche fra i democratici e i repubblicani l’idea che non si potesse raggiungere l’obiettivo dell’unità nazionale senza l’alleanza con il Piemonte sabaudo, l’unico stato che non aveva sconfessato la carta costituzionale (lo Statuto concesso da Carlo Alberto) e che era diventato un rifugio per i molti esuli delle altre regioni italiane.
In questo senso una testimonianza interessante ci viene da Daniele Manin, il difensore della Repubblica veneta, nel 1856 esule a Parigi. 
Nel 1857 con la regia di Cavour e sotto la presidenza dello stesso Manin (che morirà di lì a poco) si costituì la Società Nazionale che agiva allo scoperto nel Regno di Sardegna e clandestinamente negli altri stati. Moltissimi repubblicani vi saranno coinvolti, tra i quali Garibaldi con la carica di vicepresidente onorario. L’associazione avrà un ruolo determinante nell’organizzazione della Spedizione dei Mille e verrà sciolta nel 1862.
Viceversa Mazzini non riuscirà a svolgervi un ruolo decisivo: tenterà di spingere Garibaldi a proseguire verso Roma, ma il Generale, preoccupato per le condizioni dei suoi volontari e soprattutto temendo una guerra fratricida, non lo ascolterà e a Teano saluterà Vittorio Emanuele come re d’Italia.

L’influenza di Mazzini sul Movimento Operaio italiano

 

Negli anni londinesi, Mazzini aveva conosciuto la miseria e lo sfruttamento della classe operaia e aveva promosso scuole popolari per combattere l’analfabetismo tra i bambini lavoratori. Ma la sua attenzione per le condizioni dei lavoratori non era solo di tipo umanitario. Infatti nella sua concezione politica la missione storica che Dio ha affidato al popolo non può essere raggiunta se gran parte di esso si trova nella povertà e nell’ignoranza. La nuova umanità che secondo Mazzini deve formarsi non deve vedere più proprietari che godono il frutto delle fatiche altrui e lavoratori dannati alla miseria, ma il capitale e il lavoro dovranno essere riuniti nelle stesse mani. Per questo i lavoratori dovranno perciò riunirsi in associazioni libere e volontarie (cooperative di produzione) che facilitino l’acquisto della proprietà e garantiscano a ciascuno una parte del prodotto del lavoro comune e il diritto a una proporzionata partecipazione agli utili.
Dopo il 1860, in un’Italia che poteva finalmente godere di libertà di stampa e di associazione, la propaganda mazziniana fornì un completo programma di azione alle associazioni operaie che si stavano diffondendo in tutto il paese. Già da anni infatti, specialmente in Piemonte, era sorto un movimento di mutuo soccorso operaio protetto e sospinto dagli uomini del partito moderato, che in questo modo speravano di controllare le masse lavoratrici e allontanarle dal partito repubblicano, considerato sovversivo. Ma l’esperienza delle Società di Mutuo Soccorso, che garantiva ai soci sussidi per vecchi o ammalati, spacci cooperativi, banche di credito, agenzie di collocamento per i disoccupati, scuole serali o festive, biblioteche, giornali, diede agli operai la consapevolezza dei propri interessi e un’organizzazione autonoma per difenderli. Nel 1860 all’VIII Congresso delle società operaie il programma mazziniano fu accolto trionfalmente. In poco tempo Mazzini divenne socio onorario di molte società, che si rivolgevano a lui per consigli e appoggi e i mazziniani si diedero da fare per collegare i vari movimenti operai del paese e d’Europa in modo da ottenere unità d’intenti e d’azione.
Ma il pensiero sociale di Mazzini era molto fragile perché si basava sul sogno utopistico della solidarietà fra le classi sociali, sull’educazione e l’elevazione morale fondata sull’amore e la fede. Infatti Mazzini temeva i contrasti tra le classi, che avrebbero diviso il popolo, per cui condannò tutte le forme di lotta che potevano trasformarsi in scontri aperti e violenti. Per la stessa ragione prese una posizione assolutamente contraria alla Comune di Parigi, con la quale si erano schierati invece tutti i democratici, a partire da Garibaldi. Si scontrò con Marx e Bakunin che, da posizioni diverse, proponevano un’organizzazione autonoma e rivoluzionaria della classe operaia.
In realtà per lui il miglioramento delle condizioni operaie era solo la condizione per la loro partecipazione al progetto politico dell’unità repubblicana. Ma questo era un tema molto lontano dagli interessi della classe operaia e addirittura contrario a quello delle masse contadine, che Mazzini trascurò del tutto.
In pochi anni le società operaie si allontanarono dal pensiero mazziniano che insisteva troppo sui temi del dovere, della morale, della missione o del progresso umano, non accettava critiche e rimandava la soluzione dei problemi sociali a dopo la soluzione dei problemi politici.
Il suo sogno di collaborazione delle classi si avviò verso un naufragio, mentre all’egoismo borghese cominciavano a contrapporsi il rancore e la decisa volontà di lotta del proletariato. Sicuramente con questo sconforto arrivò alla morte, ma il suo contributo allo sviluppo di forme di organizzazione della classe operaia fu comunque fondamentale.

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