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Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - Il Romanticismo, un movimento di libertà e giustizia. Patrioti e intellettuali, artisti e soldati - 3 LETTERATURA E RISORGIMENTO - Ippolito Nievo - La difesa della Repubblica Romana nelle pagine di Nievo

La difesa della Repubblica Romana nelle pagine di Nievo

Il romanzo storico Le confessioni di un italiano, composto da Ippolito Nievo fra il 1857 e il 1858, ma pubblicato dopo la morte dell’autore nel 1867 con il titolo Le confessioni di un ottuagenario, ha come protagonista e narratore Carlo Altoviti, un nobile della terraferma veneziana e un patriota che, giunto sulla soglia degli ottanta anni, ripensa alla sua vita e la racconta. Nelle pagine finali del romanzo attraverso il diario del figlio di Carlo, Giulio Altoviti, ci viene narrato un episodio della difesa della Repubblica Romana.

Roma, giugno 1849

«Aveva giurato di non aggiungere una parola, se non avessi a scrivere la mia redenzione. Eccomi finalmente... Ho ripreso il mio nome, l’onor mio! La mia famiglia la mia patria saranno contente di me, ed io godo nel vergar queste righe di sentir il dolore della ferita, e di veder la pagina imbrattarsi di sangue.
V’hanno nella mia legione alcuni giovani padovani che altre volte conobbi. Costoro mi sopportavano assai malvolontieri, e credo mi designassero alla diffidenza dei compagni; ma io fingeva non m’accorgere di nulla, aspettando che i fatti parlassero per me. Era tempo, giacché temeva che a lungo andare avrei perduto ogni pazienza.
Da dieci giorni i Francesi hanno aperta la trincea contro San Pancrazio. Gli assalitori ingrossavano sempre più; ma iersera s’interpose una specie di tregua e i nostri ne approfittarono per dar riposo ai soldati. Soltanto una mezza coorte custodiva disposta in catena quel tratto minacciato dei bastioni; io stava in guardia dietro una gabbionata costrutta pochi giorni innanzi e già ridotta a mucchi dal tempestar delle bombe. La notte era profonda; e si vedevano da lontano i fuochi del campo d’Oudinot. Tutto ad un tratto io sentii giù nel fosso uno scalpitar di pedate; pareva che le scolte sonnecchiassero, giacché non diedero alcun segno; io gridai “all’armi!”, e prima che mi venisse intorno una dozzina di legionari, già una colonna di cacciatori francesi guadagnava per la breccia il sommo del bastione. Mi ricordai di Manlio e solo colla mia baionetta ributtai i primi; l’altura della posizione mi favoriva e fors’anco il comando che avevano gli assalitori di non sparare se non si fossero prima stabiliti sul bastione.
Infatti essi non potevano offendermi di punta dal sotto in su, e indietreggiando misero qualche scompiglio nella prima fila che disordinò del pari la seconda. Credevano forse che un maggior numero di difensori guernisse il muro e vi fu un istante ch’io credetti d’aver bastato da solo a sgominare l’assalto. Ma in quella l’officiale che comandava la fazione, come spazientito del timore de’ suoi, balzò innanzi e giunse sul bastione gridando e incoraggiandoli colla spada sguainata; gli altri ripresero animo e lo seguirono tosto.
Io non sapeva che fare; tornai a urlare: “all’armi! All’armi!”, con quanto fiato aveva in corpo, e mentre alcuni legionari accorsi al grido si opponevano all’irruzione della colonna, io mi slanciai sull’officiale e prima che avesse tempo di adoperare la sciabola lo disarmai; egli aveva alla cintola una pistola, me ne scaricò un colpo a bruciapelo che non mi portò via fortunatamente altro che la falange d’un dito.
Ma intanto i difensori spesseggiavano; il bastione rimbombava di fucilate, gli uomini accorrevano ai cannoni, e i cacciatori, divisi dal loro capo ch’io aveva fatto prigioniero, furono respinti nel fosso. In pari tempo un altro assalto minacciava l’altra estremità della cortina, ma parte dei nostri ebbe tempo di accorrere colà, finché arrivarono gli aiuti delle caserme; e si seppe poi da alcuni prigionieri che tutto in quella notte era disposto per una sorpresa; ma che non era riescita per esser stata respinta la ricognizione dei cacciatori.
Debbo render giustizia ai miei compagni i quali tutti attribuirono a me l’onore di quel fatto d’armi, e chiesero unanimi ai capi che ne fossi ricompensato. Il giorno appresso, alla rassegna generale alla quale comparvi colla mano bendata, fu letto un ordine del giorno nel quale si rendevano pubbliche grazie al gregario Aurelio Gianni per aver bene meritato della patria, e lo si innalzava al grado di alfiere. Tutti gli occhi si volsero verso di me: io chiesi licenza di parlare.
“Dite pure” soggiunse il capitano: giacché nelle nostre schiere la disciplina non era né tanto muta né così severa come negli altri eserciti.
Io buttai uno sguardo verso quei giovinotti padovani che stavano in fila poco lunge da me, e alzando tranquillamente la voce: “Chieggo” soggiunsi “come unica grazia di rimanere gregario, ma di essere onorato d’una pubblica lode sotto il mio vero nome. Una di quelle solite tacce di spionaggio e di tradimento che disonorano le nostre rivoluzioni mi costrinse momentaneamente a lasciarlo; ora che spero aver persuaso del loro torto i miei calunniatori, lo riprendo con orgoglio. Mi chiamo Giulio Altoviti; sono di Venezia!”.
Un applauso generale scoppiò da tutte le file; credo che se gli ufficiali non li trattenevano avrebbero rotte le ordinanze per abbracciarmi, e vidi dentro a molti occhi avvezzi a sostenere fieramente il fuoco delle archibugiate luccicar qualche lagrima. Ricompostosi l’ordine e fatto silenzio, il capitano, dopo essersi consultato col generale, riprese con voce commossa che la patria si gloriava d’un figliuolo che si vendicava degli insulti tanto nobilmente; che mi additava per esempio onde le discordie nostre ricadessero a peggior danno dei nemici, e che in premio della mia generosa costanza mi creava aiutante di campo del generale Garibaldi col titolo di capitano.
Un nuovo applauso dei miei commilitoni approvò pienamente questa ricompensa; e poi fu sciolta la rassegna, e marciando verso la caserma io seguitai a piangere come un fanciullo e parecchi di quei prodi piansero con me. Indi a poco sopraggiunsero a intenerirmi piucchemai le proteste e le preghiere di quei giovani padovani che si disperavano di non avermi conosciuto prima e supplicavano di esser perdonati della loro diffidenza. Questo fu il premio più dolce che mi ebbi; e lo palesai loro abbracciandoli uno per uno. La festa di tutta la legione, l’ammirazione dei compagni, l’affetto dei superiori, le lodi d’una città intera mi provarono che non è mai chiuso il varco a riconquistare la pubblica stima colla costanza dei sacrifizi, e che le imprese veramente nobili e generose non ispirate né da furore né da superbia ammutoliscono l’invidia e trovano ossequio nel mondo. Oh sarebbe così dunque, se questa calunniata umanità fosse così vile così perversa come taluni ce la descrivono e come io la credeva? Costretto ad accettar la sua stima come ricompensa, io vergognai fra me di averla disprezzata senza cognizione di causa, e conobbi che la mia penitenza non era stata soverchia per un sì grave peccato.»

Roma, 4 luglio 1849

«Oh a che giovò mai la nostra perseveranza? Eccoci raminghi in un esiglio che non finirà forse mai più! La legione è partita per le Romagne e per la Toscana, sperando di colà riguadagnare Venezia o il Piemonte e la Svizzera; ma la ferita che mi si riaperse nelle fatiche di questi ultimi giorni m’impedisce di camminare. Il generale mi fornì di alcune lettere per l’America, ove guarito che fossi mi permettessero d’imbarcarmi e mi volgessi colà. Sì! Io mi volgerò oltre l’Atlantico! Colombo vi cercava un nuovo mondo: io non domanderò altro che pazienza. Ma sento che l’onore della nostra nazione è affidato a noi poveretti, sbalestrati dalla sventura ai quattro capi della terra. Attività dunque e coraggio! Un popolo non consta altro che di anime; e finché la virtù affoca l’anima mia, la scintilla non è morta. Sempre sarò degno del nome che riconquistai e del paese dove son nato. Tu, padre mio, che ai giorni passati mi lusingava di rivedere e che oggi dispero di abbracciare mai più, abbiti l’ultimo sospiro del tuo figliuolo proscritto. L’amor mio d’or innanzi sarà senza sospiri e senza lagrime, come quello che si riposa solamente nelle eterne speranze. Penserò a mia madre e a mia sorella come a due angeli, che mi raddoppieranno quandochessia la beatitudine del cielo.»

 

Da Nievo I., Le confessioni di un italiano, Einaudi, Torino 1964, in: http://www.liberliber.it, pp. 320-321.

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Pagina manoscritta tratta da Le confessioni di un italiano 
di Ippolito Nievo

Attività

1) L’episodio che viene raccontato dal Nievo nella prima parte è conforme a quanto accadde a Porta San Pancrazio, durante la difesa della Repubblica Romana?

2) «Eccoci raminghi in un esiglio che non finirà forse mai più!» Scrive Giulio Altoviti alla data del 4 luglio 1849. Perché? Che cosa è successo? Per rispondere puoi consultare:

 

3) L’esilio fu una scelta e una necessità per molti patrioti dopo le insurrezioni fallite del 1848-1849. Cita i nomi e i percorsi di alcuni esuli famosi. Puoi consultare in proposito:

 

4) Quali temi tipici del Romanticismo ritrovi in queste pagine di Nievo? Rispondi confrontandoti con i compagni.

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