Guida alla Lettura
Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - L’impresa dei Mille - 4 INTERPRETAZIONI E PISTE DI LAVORO - 4.3 Le fonti - Fonti consultate
Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - L’impresa dei Mille - 4 INTERPRETAZIONI E PISTE DI LAVORO - 4.3 Le fonti - Fonti consultate
Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - L’impresa dei Mille - 4 INTERPRETAZIONI E PISTE DI LAVORO - 4.3 Le fonti - Referenze delle immagini utilizzate nel modulo
Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - L’impresa dei Mille - 4 INTERPRETAZIONI E PISTE DI LAVORO - 4.3 Le fonti - Referenze delle immagini utilizzate nel modulo
Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - L’impresa dei Mille - 4 INTERPRETAZIONI E PISTE DI LAVORO - 4.3 Le fonti - Referenze delle immagini utilizzate nel modulo
Fonti consultate
L’impianto manualistico serve poco
L’impianto manualistico serve poco
Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - La guerra nell’Ottocento: le battaglie e i modi di combattere nel Risorgimento - 3. Le forze armate - Bersaglieri e corazzieri
Referenze delle immagini utilizzate nel modulo
Bersaglieri e corazzieri
Fare l'Italia, fare gli italiani
Il processo di unificazione nazionale
Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - Il completamento dell’unità e la costruzione dello Stato - 2 SPAZI, TEMI, EVENTI - 2.6 Fare gli italiani - Storie di migranti e fuggitivi (M. Rigoni Stern)
Storie di migranti e fuggitivi (M. Rigoni Stern)
L’Italia, ora luogo d’arrivo o di transito per tanti profughi e migranti, era un tempo terra di emigrazione. Si partiva per sopravvivere o in cerca di miglior fortuna dal Sud, ma anche dalle regioni del Nord verso il Centro-Europa o la Francia, già prima dell’unità (1861).
Mario Rigoni Stern ci racconta, nel romanzo Storia di Tönle, come si viveva sull’altipiano di Asiago negli ultimi decenni del XIX secolo, quali nuove idee vi circolavano e quali strade percorreva chi era costretto a emigrare per trovarsi un lavoro soddisfacente o chi, come il protagonista, era obbligato ad andarsene oltre confine, nelle terre dell’Impero asburgico, per sfuggire alla prigione.
Passavano e ritornavano le stagioni: dallo sciogliersi delle nevi e fino alle nuove nevicate andava per i paesi e gli Stati asburgici, lavorando dove capitava, a volte con buoni risultati, a volte meno. Nell’inverno stava rintanato in casa, o nella contrada, o nel bosco a far legna, o in qualche hutta per non farsi sorprendere dalle guardie che sempre lo avevano in nota per arrestarlo e fargli scontare quindi i quattro anni di prigione. Ma sempre, al principio dell’inverno, verso Natale, ritornava a casa nelle prime ore della notte, ossia dopo che la sera aveva fatto svanire nel buio il ciliegio sul tetto di paglia. E quando varcava la porta della casa trovava un figlio o una figlia nuovi, che all’anagrafe manifestavano ironia nel registrare con il suo cognome, ma c’era l’arciprete che tagliava corto: se le guardie del re non riuscivano ad arrestare il padre, che è dato per latitante oltre i confini, non era da supporre che la moglie non concepisse da lui!
Il tempo, intanto, segnava i visi dei famigliari e degli amici, accadevano cose nuove e nuove idee circolavano anche tra la gente delle nostre contrade. Ormai erano in tanti che andavano a lavorare fuori dai confini dello Stato; partivano in primavera, a gruppi, con gli arnesi del mestiere dentro la carriola e a piedi si avviavano per l’Asstal e il Menador fino a Trento, dove chi aveva i soldi poteva prendere anche la strada ferrata. A volte, a questi gruppi, si accompagnavano anche dei ragazzi che appena avevano terminato la scuola elementare, e al confine del Termine le guardie dell’una e dell’altra parte li lasciavano passare senza alcuna formalità, tutt’al più chiedevano se avevano in tasca il certificato di battesimo.
Ma chi riusciva, lavorando prima in Prussia o in Austria-Ungheria, a mettere insieme i soldi occorrenti per pagare il bastimento emigrava nelle Americhe. Laggiù, scrivevano, era tutta un’altra cosa: lavoro ce n’era sempre e le paghe erano più alte che in qualsiasi altro paese.
Si incominciò a parlare di socialismo, di associazioni di operai, di cooperative artigiane. Chi non aveva il coraggio di pronunciare la parola «socialismo» diceva e scriveva «socialità» ma, curioso, gli utenti dei beni comunali, cioè tutti i residenti nei nostri comuni, erano chiamati «comunisti» anche nelle carte ufficiali.
Anche nella nostra terra, dove da secoli i reggitori della cosa pubblica venivano scelti dal popolo, sorsero due partiti che sotto la denominazione di progressisti e moderati nascondevano invece gli interessi di alcune famiglie maggiorenti: così quello che in ottocento anni di libero governo non era mai accaduto, avvenne. Discordie, liti, querele, fughe all’estero; e ne venivano coinvolti preti e professionisti, proletari e artigiani; e c’era chi faceva commercio dei voti e chi speculava sugli emigranti. La documentazione di questo vivace periodo si deve a pochi numeri di un giornaletto settimanale che costava dieci centesimi, stampato e scritto quasi tutto da un maestro elementare che, a causa di quello che scriveva, dovette un bel giorno imbarcarsi per l’Argentina con il vapore Sirio della società Florio-Rubattino.
Se la parte moderata fondava la «Società di mutuo», la parte progressista la «Società operaia»; e se gli uni una fanfara con le berrette rosse, gli altri un’altra fanfara con le berrette verdi e una penna di fagiano; se poi gli uni suonavano per Garibaldi o per Porta Pia, gli altri per lo Statuto o per il genetliaco della regina Margherita.
Intanto alla crisi della filatura e tessitura famigliare (erano sorti i grandi opifici di Schio) sopravvenne l’attività artigianale della fabbricazione di scatole in legno per usi farmaceutici o per profumeria, dove bambini e ragazze tra i dieci e i quindici anni potevano guadagnare, in dieci ore, la media di sessanta centesimi al giorno.
A questo libero giornale che dicevo arrivavano anche lettere come queste certamente rivedute dal direttore:
«... Io sono in una miniera con alcuni altri paesani, miniera che è la più fruttuosa di tutta la Prussia e forse di tutta Europa. Sotto questa collina lavoravano circa ottocento uomini. Il mio lavoro è bello, ma assai pericoloso, ché non ho mai occhi abbastanza per riguardarmi dal male […]. Alla mattina alle quattro ore io devo mettermi in viaggio e camminare per lo spazio di 40 minuti entro il seno del monte: prima d’arrivare al lavoro devo fare 2300 metri cominciando al piè di esso […]. E per dieci ore non posso uscire e n’esco poi debole e fiacco dal troppo lavorare e dall’aria impura che là sotto si deve respirare. Quanti giovani si vedono dai 20 ai 30 anni che par n’abbino 50! Quasi tutti che lavorano qui dentro. Vi è dopo dell’aria impura un’altra cosa insalubre al corpo: la lampa, che allumandola dà fumo, il quale entra tutto nello stomaco, e colui che non lo purga deve fuggir o morire. Io, grazie a Dio, lo ritraggo, e i miei patrioti; ma se ne vedono molti di rovinati...»
E un altro minatore da Algringen scrive:
«... Lavoro a circa mille metri nella montagna. Alla mattina parto di casa alle cinque pregando Iddio che mi tenga lontano dal pericolo. Entro nella galleria e lavoro tutta la giornata con dura fatica fino alle cinque o sei pomeridiane. Me ne ritorno quindi al quartiere tutto contento per avermi guadagnato nel corso della giornata cinque lire e alle volte anche di più o di meno...»
D’inverno, nelle osterie del centro, minatori ed eisenponnar discutevano di queste cose e bevevano vino.
Tönle Bintarn, che non poteva certo farsi vedere con loro, se ne stava rintanato nella contrada e qualche sera, nelle stalle, parlava sottovoce del Manifesto dei comunisti che aveva letto in lingua tedesca quell’anno che era stato a lavorare nella miniera di Hayngen.
Accadde anche in quegli anni che certi benestanti, non certo ancora ricchi, ma certo furbi, si misero dalla parte del partito operaio delle Barete Rosse per spingere il popolo a fare «tolbar» di tutti gli antichi beni comunali: ossia dividere pro capite tutta la proprietà di boschi, pascoli e seminativi.
Lo scopo per i sobillatori era evidente: una volta diviso il grande patrimonio comune sarebbe stato facile comperare dagli affamati proletari emigranti, e per vile prezzo in generi, orzo farina o cacio, i beni già della comunità.
A questi finti progressisti che si appoggiavano alle Barete Rosse si opponevano i «malve», ossia i conservatori che accettavano sì un certo progresso come le scuole per tutti, il telegrafo, l’illuminazione, ma anche guardavano con diffidente paura l’agitarsi delle classi povere.
Ma tra gli uni e gli altri buon gioco avevano gli imprenditori che appaltavano i lavori delle fortificazioni militari.
Da Rigoni Stern M., Storia di Tönle, in: Trilogia dell’Altipiano, Einaudi, Torino 2010, pp. 28-31.
Guida alla Lettura
1) Verso quali paesi si dirigeva chi emigrava dall’altipiano di Asiago e per svolgere quali mestieri? Perché i migranti non andavano direttamente in America?
2) Che cosa sai del viaggio degli emigranti italiani verso le Americhe? E del naufragio del Sirio? Puoi ascoltare la canzone che fu dedicata a quel tragico evento all’URL: http://www.youtube.com/watch?v=T0_zDYw6qEk.
3) Quali trasformazioni economiche, sociali, politiche segnano l’altipiano di Asiago negli ultimi decenni del XIX secolo? Quali cambiamenti vengono raccontati da Rigoni Stern relativamente a:
-
proprietà terriera;
-
industria e artigianato;
-
organizzazioni politiche;
-
diffusione di idee e ideologie.
4) Quale giudizio esprime l’autore su chi convince il popolo a «dividere pro capite tutta la proprietà di boschi, pascoli e seminativi»?
5) Spiega perché condividi o non condividi questo giudizio e confrontati con i compagni.