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Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - Il completamento dell’unità e la costruzione dello Stato - 2 SPAZI, TEMI, EVENTI - 2.6 Fare gli italiani - Dal Sud migranti poveri e analfabeti (G. Ruffolo)

Dal Sud migranti poveri e analfabeti (G. Ruffolo)

Solo con gli ultimi decenni del XX secolo l’Italia è diventata un paese di immigrazione, trasformandosi da terra di partenza in luogo di destinazione o di passaggio per milioni di migranti. Dall’unità (1861) agli anni settanta del secolo scorso molti milioni di italiani si trasferirono, cercando all’estero (circa 27 milioni) o in altre regioni (circa 25) migliori condizioni di vita. All’inizio del Novecento l’emigrazione dal Sud si fece molto consistente, nonostante l’opposizione dei governanti e dei “padroni”/proprietari, come ci dice lo storico ed economista Giorgio Ruffolo. 

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Alcuni emigranti in partenza per la Nuova Zelanda

Tra il 1901 e il 1923 emigrarono in America 4 711 000 italiani. Di questi, 3 374 000 provenivano dal Mezzogiorno. L’emigrazione meridionale era passata dal 13 al 39% di quella italiana complessiva. Si trattava di gente povera e analfabeta. A differenza delle correnti migratorie provenienti dal Nord d’Italia, che si erano indirizzate prevalentemente verso l’America Latina, assumendo le caratteristiche di una vera e propria colonizzazione, quelle meridionali, costituite in massima parte da contadini, erano destinate ai ranghi del proletariato urbano. Si ammassavano nei “bastimenti” per terre assai lontane, in viaggi transoceanici molto meno costosi di quelli ferroviari diretti verso i paesi europei (P. Milza, Storia d’Italia).

Le inchieste condotte dalla Direzione della statistica sulle cause dell’emigrazione distinguono fra i partenti per miseria, assolutamente prevalenti fra gli emigranti del Sud, e quelli «per desiderio di miglior fortuna», prevalenti fra quelli delle regioni settentrionali. Pure, nella generale motivazione economica, le cause specifiche dell’emigrazione variano da regione a regione. In Abruzzo e nel Molise, l’indole ardita di pastori abituati da secoli alle transumanze, in Campania l’esasperazione per i patti angarici, i bassi salari, la malaria, le zone sterili della montagna: «se non fosse avvenuta l’emigrazione, – dice un contadino –, si sarebbe fatto a coltellate per vivere». In Puglia, la regione a minore intensità migratoria del Mezzogiorno, sono presenti artigiani, contadini affittuari, anche piccoli proprietari, che tendono tutti a tornare, dopo aver raggranellato il reddito necessario per campare meglio. La Basilicata dà il più alto contributo relativo all’emigrazione: nel 1911 la popolazione si riduce del 3,58%. È soprattutto dalle zone montuose ad alta densità demografica e a basso rendimento agricolo, che provengono gli emigranti. Ci sono i suonatori ambulanti di Viggiano, che cantano: «l’arpa al collo son viggianese tutto il mondo è il mio paese». Ma il tono di un vecchio di Lagonegro è diverso: «qua non si può vivere. Il Signore non ci manda bene. I terreni sono arsi». E un altro: «qua è l’acerba montagna, gli uomini si stancano e la terra non dà niente. La gente va in America. Lasciateli andare». I calabresi, all’inizio, furono più lenti a muoversi, erano più diffidenti; ma poi cominciarono a partire in massa, a causa anche dei disastri che li colpivano: la fillossera, la mosca olearia, i terremoti. «Perché devo restar qui? – dice un giovane di Gerace Marina – qui ho due lire, in America 14. Sarebbe disonesto. – E i proprietari? – Sono mali». «Qui – dice un proprietario –, l’emigrazione è nata come un bisogno, è cresciuta come un desiderio, è diventata un morbo infettivo».

Egli esprime una preoccupazione che non manca di diffondersi, tra le classi possidenti e nel governo stesso. L’emigrazione, ovviamente, comportava tremendi disagi, materiali e morali. Il dolore profondo del distacco, l’incognita dei rischi, i pericoli di una condizione indifesa, le minacce degli interessi stranieri offesi.

Questi innegabili costi furono invocati come motivi per contrastare, anzi per impedire l’emigrazione, ma la pietà c’entrava poco o niente. La reazione che fin dal primo momento suscitò il moto spontaneo dell’emigrazione fu determinata – e lo si dichiarò con aperta impudicizia dal governo e in Parlamento – dal fatto che essa «rompeva l’equilibrio esistente nel rapporto tra le classi agricole, provocando una diminuzione della massa di manodopera disponibile nelle campagne e, conseguentemente, un aumento dei salari e un mutamento del regime contrattuale, sfavorevole ai proprietari». Si evidenziavano anche gli aspetti psicosociali di quella «malaugurata febbre»: la svogliatezza del lavoro, l’irriverenza, l’insubordinazione, oltre al pericolo, per i proprietari, d’insolvenza dei debiti contratti nei loro confronti.

Di fatto, fin dal manifestarsi delle prime correnti migratorie, la posizione assunta dal governo fu sostanzialmente repressiva. Si tentò di contrastare l’attività degli agenti d’emigrazione, come se essi fossero i principali responsabili del fenomeno. E, con circolari, si invitarono i prefetti a impedire l’emigrazione clandestina e a ostacolare quella lecita.

Ciononostante, la spinta era troppo forte perché si potesse pensare seriamente di contrastarla.

Nell’opinione pubblica, il bracciante disperato e analfabeta «diventò l’eroe di una nuova e pacifica rivoluzione sociale». Diceva Franchetti, in Mezzogiorno e colonie:

[…] mentre si scrivevano libri, si pronunciavano discorsi, si compilavano leggi per risolvere il problema del Mezzogiorno, i contadini meridionali ne iniziavano la soluzione da sé, silenziosamente. Andavano in America, a creare quei capitali che sono pur necessari per fecondare la terra del loro paese. 


Diceva Nitti, come riporta Christopher Duggan, in La forza del destino:

 

Quel capitale circolante che la borghesia ha vanamente richiesto allo Stato mercé sgravi tributari, opere pubbliche, diffusione del credito, oggi lo va formando il popolo mercé i risparmi sugli alti salari guadagnati all’estero e inviati in patria. 
 


Da Ruffolo G., Un paese troppo lungo. L’unità nazionale in pericolo, Einaudi, Torino 2009, pp. 164-166.

 

 

 

 

 

Guida alla Lettura  

    
1) Spiega quali caratteristiche ha – all’inizio del Novecento – l’emigrazione dal Sud rispetto a quella che proviene dal Nord. Tieni presente:

 

  • a quali ceti sociali appartengono i migranti meridionali e quelli settentrionali;

  • dove si dirigono prevalentemente gli uni e gli altri;

  • quali ragioni spingono gli uni e gli altri;

  • quali differenze ci sono fra le varie regioni del Sud.    

 

2) Per quali motivi i governanti cercano di ostacolare l’emigrazione?

3) Perché nonostante vari tentativi non riescono a impedirla?

4) In che modo gli emigranti contribuiscono all’economia della madrepatria? Rileggi in proposito le testimonianze di Franchetti e Nitti. 

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