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L’impianto manualistico serve poco
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Bersaglieri e corazzieri
Fare l'Italia, fare gli italiani
Il processo di unificazione nazionale
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La corrente moderata monarchica
Dopo i drammatici insuccessi delle azioni rivoluzionarie mazziniane, intorno al 1840 cominciò a consolidarsi la corrente di pensiero moderata, che riconosceva nella monarchia la guida per la formazione di uno Stato italiano. I personaggi che ispirarono questo movimento vanno da Vincenzo Gioberti a Massimo D’Azeglio, Cesare Balbo, Marco Minghetti per concludere con il più noto: il conte Camillo Benso di Cavour.
Tutti, eccetto Gioberti, erano di estrazione aristocratica o borghese, contrari alle azioni radicali promosse dai mazziniani, ma interessati a raggiungere accordi con i sovrani per ottenere riforme. Erano quindi riformisti illuminati e la forma di organizzazione dello Stato a cui si ispiravano era quella della monarchia costituzionale. Ebbero ruoli politici importanti, come capo di governo nel Regno di Sardegna o del nuovo Regno d’Italia.
Pur collocandosi nell’ala conservatrice del movimento risorgimentale, proponevano per il futuro stato italiano una confederazione che rispettasse le differenze tra le diverse regioni, ipotesi che poi non si realizzò, poiché prevalse l’idea centralista di trasferire al nuovo stato tutta la legislazione di tipo autoritario dei Savoia. L’Italia nel 1861 venne infatti divisa in province guidate da prefetti di nomina governativa; anche i sindaci furono nominati dal governo e non eletti dai cittadini. Il controllo diretto su tutto il territorio nazionale fu quindi assicurato e ogni autonomia cancellata.
Alla fine del processo risorgimentale, la corrente moderata e monarchica risultò vincente rispetto a quella democratica. I motivi di questo successo furono numerosi: sicuramente ebbe grande influenza Vittorio Emanuele II, che si presentò all’opinione pubblica come re costituzionale (nel 1849 unico fra gli stati italiani il Regno di Sardegna mantenne lo Statuto Albertino) e propose di fatto il suo regno come stato di riferimento per la futura nazione italiana. Molto convincente fu poi l’azione diplomatica e politica del suo primo ministro, Camillo Benso di Cavour, che risultò determinante per la formazione del Regno d’Italia.
Infine la delusione per gli insuccessi rivoluzionari e mazziniani del 1849 e degli anni successivi orientarono tanti borghesi e intellettuali verso una monarchia costituzionale, impersonata appunto dal giovane ed energico re di Sardegna.
Segue una breve sintesi con i profili dei rappresentanti più significativi della corrente moderata.
Vincenzo Gioberti (1801-1852), sacerdote piemontese di umili origini, ma grande studioso di teologia, fu il principale esponente del movimento neoguelfo. Egli nel suo libro, di enorme successo per l’epoca, Del primato morale e civile degli Italiani (1843), sostenne che la guida dell’unificazione d’Italia doveva essere gestita dai re e dai nobili dei diversi stati della penisola e non doveva dipendere dal popolo. I governanti in carica si sarebbero accordati in modo spontaneo per far nascere una confederazione di stati, sotto la presidenza del papa, guida naturale del «genio» religioso cattolico italiano. Se il papa rappresentava la guida religiosa da un lato, dall’altro il Regno di Sardegna ne sarebbe stato la difesa militare. La sua proposta sembrò realizzarsi in seguito all’elezione nel 1846 di papa Pio IX, ritenuto un «liberale», mentre l’allora re di Sardegna, Carlo Alberto, mostrava inquietudini liberali considerate interessanti agli occhi dell’opinione pubblica.
Le vicende della Prima guerra d’indipendenza del 1848-1849, come la posizione ambigua di Carlo Alberto e le scelte del papa Pio IX, fecero naufragare drammaticamente la proposta giobertiana.
Cesare Balbo (1789-1853), piemontese e cugino di Massimo D’Azeglio, viaggiò a lungo, visitando numerose capitali europee e acquisendo una cultura illuminista e cosmopolita. Si ispirò a Vincenzo Gioberti nella sua opera Delle speranze d’Italia (1844). Egli però immaginava una confederazione di stati da realizzarsi unicamente sotto i Savoia. Perché ciò si realizzasse, sperava che l’Austria spontaneamente abbandonasse il Lombardo-Veneto e ampliasse i suoi domini nella penisola balcanica (Serbia, Montenegro etc.) a danno dell’Impero ottomano. Da Gioberti lo separava il timore per lo strapotere della gerarchia ecclesiastica, in particolare dei gesuiti.
Massimo D’Azeglio (1798-1866), piemontese, sposò Giulia figlia di Alessandro Manzoni; fu un grande sostenitore della monarchia sabauda e in particolare del giovane Vittorio Emanuele II. Era un moderato convinto, infatti nella sua opera Degli ultimi casi di Romagna (1846) condannò l’insurrezione come metodo di lotta. Fu contrario all’idea che il nuovo Regno d’Italia assumesse i connotati di uno stato centralista, ma auspicava una confederazione sul modello della Germania. Sua è la famosa frase: «Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani» pronunciata all’indomani dell’unificazione, consapevole che le grandi differenze tra gli stati preunitari non avrebbero consentito un’immediata fusione delle culture e degli indirizzi economici. Purtroppo fu inascoltato.
Marco Minghetti (1818-1886) fu uno dei più stretti collaboratori di Cavour. Di origini bolognesi, anch’egli visitò numerose capitali europee e frequentò personaggi della borghesia inglese all’avanguardia per l’epoca. Si dichiarò ostile a ogni azione di tipo insurrezionale, infatti, pur essendosi dimesso da ministro dello Stato della Chiesa per contrasti con Pio IX, non aderì alla Repubblica Romana del 1849. In seguito fu primo ministro e ministro delle Finanze del Regno d’Italia, per il quale raggiunse il pareggio di bilancio. Da serio amministratore finanziario qual era, si considerò protagonista della stagione «della prosa e non della poesia del Risorgimento». Anch’egli si dichiarò contrario alle caratteristiche del nuovo stato italiano, con un ordinamento fortemente accentratore, infatti propose una legge nel 1861 al Parlamento di Torino con progetto federalista, che fu però bocciata.
Camillo Benso di Cavour (1810-1861) aristocratico piemontese è considerato uno dei padri della Patria, che contribuì a fondare nel 1861, pochi mesi prima di morire. Di formazione illuminista e liberale, come altri nobili dell’epoca visitò i paesi europei d’avanguardia in quel periodo di rivoluzione industriale (Inghilterra, Belgio, Francia) prima di dedicarsi all’azione politica, come ministro dell’Agricoltura e delle Finanze e poi come primo ministro del Regno di Sardegna.
Fu noto per la sua Realpolitik, espressione tedesca che spiegava come la sua azione politica fosse poco ideologica, ma avesse senso della realtà. Realizzò capolavori diplomatici come l’accordo con Napoleone III di Francia per farlo intervenire contro l’Austria nella Seconda guerra d’indipendenza del 1859, oppure nell’adattarsi alle vicende della Spedizione dei Mille del 1860, con esercizi di equilibrio fra le correnti rivoluzionarie e moderate interne e la contemporanea influenza delle potenze europee, Inghilterra, Francia, Prussia e Austria.
Anch’egli era convinto federalista, ma la morte precoce gli impedì di portare avanti il suo disegno istituzionale per il nuovo Stato italiano.