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Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - Il completamento dell’unità e la costruzione dello Stato - 2 SPAZI, TEMPI, EVENTI - 2.5 La fine del potere temporale dei papi: Italia e contesto europeo - Aspromonte: una ricostruzione letteraria (G. Tomasi di Lampedusa)

Aspromonte: una ricostruzione letteraria (G. Tomasi di Lampedusa)

Il romanzo Il Gattopardo, scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa e pubblicato postumo nel 1958, è ambientato in
Sicilia negli anni dell’impresa dei Mille e della successiva unificazione nazionale. Al centro del romanzo c’è la difficoltà
da parte della nobiltà dell’isola, rappresentata dal principe Fabrizio Salina, di accettare i cambiamenti in atto, ma anche
la necessità di adeguarsi alla crescita del potere dei borghesi e al nuovo governo “straniero” del Piemonte.
In questo brano il colonnello Pallavicino, ufficiale dell’esercito italiano, durante una festa da ballo descrive lo scontro
dell’Aspromonte dal suo punto di vista, che è quello del governo e dei vincitori.

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Il principe don Francesco Salina interpretato da Burt Lancaster nel film Il gattopardo di Luchino Visconti, tratto dall’omonimo romanzo di G. Tomasi di Lampedusa

Mentre degustava la raffinata mescolanza di bianco mangiare, pistacchio e cannella racchiusa nei dolci che aveva
scelti, Don Fabrizio conversava con Pallavicino e si accorgeva che questi, al di là delle frasi zuccherose riservate forse
alle signore, era tutt’altro che un imbecille; era un “signore” anche lui e il fondamentale scetticismo della sua classe,
soffocato abitualmente dalle impetuose fiamme bersaglieresche del bavero, faceva di nuovo capolino adesso che si
trovava in un ambiente eguale a quello suo natio, fuori dell’inevitabile retorica delle caserme e delle ammiratrici.

“Adesso la Sinistra vuol mettermi in croce perché, in Agosto, ho ordinato ai miei ragazzi far fuoco addosso al Generale.
Ma mi dica lei, Principe, cosa potevo fare d’altro con gli ordini scritti che avevo addosso? Debbo però confessarlo:
quando lì ad Aspromonte mi sono visto dinanzi quelle centinaia di scamiciati, con facce di fanatici incurabili alcuni, altri
con la grinta dei rivoltosi di mestiere, sono stato felice che questi ordini fossero tanto aderenti a ciò che io stesso
pensavo; se non avessi fatto sparare, quella gente avrebbe fatto polpette dei miei soldati e di me, e il guaio non sarebbe
stato grande, ma avrebbe finito col provocare l’intervento francese e quello austriaco, un putiferio senza precedenti nel
quale sarebbe crollato questo Regno d’Italia che si è formato per miracolo, vale a dire non si capisce come.
E glielo dico in confidenza: la mia brevissima sparatoria ha giovato soprattutto... a Garibaldi, lo ha liberato da quella congrega che gli si era attaccata addosso, da tutti quegli individui tipo Zambianchi che si servivano di lui per chissà quali fini, forse generosi benché inetti, forse però voluti dalle Tuileries e da palazzo Farnese; tutti individui ben diversi da quelli che erano sbarcati con lui a Marsala, gente che credeva, i migliori fra essi, che si può compiere l’Italia con una serie di
quarantottate.

Lui, il Generale, questo lo sa perché al momento del mio famoso inginocchiamento mi ha stretto la mano e con un calore che non credo abituale verso chi, cinque minuti prima, vi ha fatto scaricare una pallottola nel piede; e sa cosa mi ha detto a bassa voce, lui che era la sola persona per bene che si trovasse da quella parte su quell’infausta montagna?

“Grazie colonnello.”

“Grazie di che, Le chiedo? Di averlo reso zoppo per tutta la vita? No, evidentemente; ma di avergli fatto toccar con mano le smargiassate, le vigliaccherie, peggio forse, di questi suoi dubbi seguaci”.
“Ma voglia scusarmi, non crede Lei, colonnello, di avere un po’ esagerato in baciamani, scappellate e complimenti?”
“Sinceramente, no. Perché questi atti di omaggio erano genuini. Bisognava vederlo quel povero grand’uomo steso per
terra sotto un castagno, dolorante nel corpo e ancor più indolenzito nello spirito. Una pena! Si rivelava chiaramente per
ciò che è sempre stato, un bambino, con barba e rughe, ma un ragazzo lo stesso, avventato e ingenuo. Era difficile
resistere alla commozione per esser stati costretti a fargli ‘bu-bu’. Perché d’altronde avrei dovuto resistere? Io la mano
la bacio soltanto alle donne; anche allora, principe, ho baciato la mano alla salvezza del Regno, che è anch’essa una
signora cui noi militari dobbiamo rendere omaggio.”
Un cameriere passava: Don Fabrizio disse che gli portassero una fetta di Mont-Blanc e un bicchiere di champagne.

“E Lei, colonnello, non prende niente?”

“Niente da mangiare, grazie. Forse anch’io una coppa di champagne.”
Poi proseguì; si vedeva che non poteva staccarsi da quel ricordo che, fatto come era di poche schioppettate e di molta
destrezza, era proprio del tipo che affascinava i suoi simili.

“Gli uomini del Generale, mentre i miei bersaglieri li disarmavano, inveivano e bestemmiavano. E sa contro chi? Contro lui, che era stato il solo a pagare di persona. Una schifezza, ma naturale: vedevano sfuggirsi dalle mani quella personalità infantile ma grande che era la sola a poter coprire le oscure mene di tanti fra essi. E quand’anche le mie cortesie fossero state superflue sarei lieto lo stesso di averle fatte: qui da noi, in Italia non si esagera mai in fatto di sentimentalismi e sbaciucchiamenti; sono gli argomenti politici più efficaci che abbiamo.”
Bevve il vino che gli avevano portato, ma ciò sembrò aumentare ancora la sua amarezza.

“Lei non è stato sul continente dopo la fondazione del Regno? Fortunato lei. Non è un bello spettacolo. Mai siamo stati tanto divisi come da quando siamo uniti. Torino non vuol cessare di essere capitale, Milano trova la nostra amministrazione inferiore a quella austriaca, Firenze ha paura che le portino via le opere d’arte, Napoli piange per le industrie che perde, e qui, qui in Sicilia sta covando qualche grosso, irrazionale guaio...

Per il momento, per merito anche del vostro umile servo, delle camicie rosse non si parla più, ma se ne riparlerà.

Quando saranno scomparse queste ne verranno altre di diverso colore; e poi di nuovo rosse. E come andrà a finire?

C’è lo Stellone, si dice. Sarà. Ma Lei sa meglio di me, principe, che anche le stelle fisse veramente fisse non sono”.

Forse un po’ brillo, profetava. Don Fabrizio dinanzi alle prospettive inquietanti sentiva stringersi il cuore.

Da Tomasi di Lampedusa G., Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 158-160.

 

 


Guida alla Lettura


1) Dal discorso di Pallavicino si intuisce che lo scontro dell’Aspromonte stava suscitando un forte dibattito tra le forze politiche. Da quale frase lo capisci?


2) Pallavicino fa una distinzione tra Garibaldi e i garibaldini. Quale giudizio dà di Garibaldi? Quale dei garibaldini?

 

3) Pallavicino afferma: «se non avessi fatto sparare, quella gente avrebbe fatto polpette dei miei soldati e di me». Pensi che Garibaldi avrebbe dato l’ordine di far fuoco sull’esercito italiano? Perché? Perché l’esercito non ha avuto dubbi sul far fuoco sui garibaldini?


4) Quale era il rischio, secondo Pallavicino, di un mancato intervento dell’esercito italiano contro Garibaldi all’Aspromonte?


5) Credi che sia stato vero che chi stava con Garibaldi all’Aspromonte erano, come dice Pallavicino, «tutti individui ben diversi da quelli che erano sbarcati con lui a Marsala»? Secondo te, perché dice così?


6) Quale giudizio dà Pallavicino del processo di unificazione e dell’Italia che si è venuta a formare? Quali problemi vede esistere in quegli anni che seguirono l’unificazione?

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