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L’impianto manualistico serve poco
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Bersaglieri e corazzieri
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Il processo di unificazione nazionale
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La legge Pica: un’arma contro il “brigantaggio”
La legge n. 1409 del 15 agosto 1863, nota come legge Pica, dal nome del suo promotore, il deputato abruzzese
Giuseppe Pica, si intitolava «Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette».
Era stata presentata come «mezzo eccezionale e temporaneo di difesa» in un momento in cui infuriava la rivolta nel
Meridione passata alla storia come «brigantaggio» e l’esercito non riusciva a contenerla, ma fu più volte prorogata e
integrata da successive modificazioni, tanto che rimase in vigore fino al 31 dicembre 1865.
I precedenti strumenti contro il brigantaggio
Già da tempo il governo aveva tentato di reprimere il brigantaggio con misure repressive. Nell’estate del 1862 era stato
proclamato lo stato d’assedio nelle province meridionali che concentrava il potere nelle mani dell’autorità militare e dava
la possibilità di fucilare senza formalità chi veniva catturato con l’accusa di brigantaggio. Nella primavera del 1863 fu
approvata un’ordinanza militare sul blocco della transumanza, cioè sulla migrazione stagionale delle greggi, che veniva
vista come uno strumento di protezione e diffusione del brigantaggio, mentre l’esercito sorvegliava rigidamente tutto il
mondo rurale, con conseguenze negative sul piano economico. Ma questi metodi non erano stati sufficienti, per cui,
dopo la relazione dell’inchiesta Massari del maggio 1863, il Parlamento varò una nuova legge per reprimere il
brigantaggio e bloccare le azioni delittuose commesse dalla nascente criminalità organizzata di tipo camorrista.
Questa legge sospese nelle province meridionali la garanzia dei diritti costituzionali contemplati dallo Statuto Albertino perché il brigantaggio venne assimilato a uno stato di guerra, caso in cui lo statuto poteva essere sospeso. In realtà fu affermato il principio illiberale secondo cui la Costituzione è una legge valida solo in periodi di pace sociale.
Quattro briganti catturati dai soldati e fotografati già morti come se fossero vivi
Nello stesso tempo fu avviata una vasta campagna di comunicazione per rafforzare nell’opinione pubblica lo stereotipo
negativo del brigante e l’idea che dovesse essere eliminato a tutti i costi. La fotografia, da poco inventata, divenne uno
strumento di propaganda per i successi sabaudi: immagini di briganti uccisi, teste mozzate, cadaveri denudati venivano
consegnate alla stampa per testimoniare la linea dura adottata dal governo.
Per tutta la fase di repressione del brigantaggio dal 1861 al 1865, nelle province meridionali fu in vigore la censura
militare: i giornalisti, sia italiani sia stranieri, ma anche gli stessi parlamentari non potevano circolare nei territori dove si
svolgevano le operazioni e i corrispondenti dei giornali potevano inoltrare alle proprie redazioni solo quanto lasciato
filtrare dalle autorità militari. Ma nel Meridione la trasformazione dello Stato in un apparato poliziesco ebbe come
conseguenza inevitabile nei cittadini una profonda sfiducia nelle istituzioni e nelle garanzie offerte dallo Stato.
Un soldato mostra il corpo del brigante Nicola Napolitano
Le nuove disposizioni della legge Pica
La nuova legge definì «infestate dal brigantaggio» le province di Abruzzo Citeriore, Abruzzo Ulteriore II, Basilicata, Benevento, Calabria Citeriore, Calabria Ulteriore II, Capitanata, Molise, Principato Citeriore, Principato Ulteriore e Terra di Lavoro. Successivamente fu aggiunta anche la Sicilia, dove non esisteva il brigantaggio filoborbonico del Napoletano, ma dove l’opposizione alla leva militare era fortissima.
Poteva essere qualificato come brigante chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone e per questo veniva giudicato da un tribunale militare. I colpevoli del reato di brigantaggio che si opponevano a mano armata alla forza pubblica erano puniti con la fucilazione, mentre coloro che non si opponevano all’arresto potevano essere condannati ai lavori forzati.
Anche coloro che prestavano aiuto e sostegno di qualsiasi genere ai briganti potevano essere puniti con i lavori forzati o con il carcere normale. Il carcere era previsto anche per il reato di eccitamento al brigantaggio, mentre, per la prima volta, fu istituita la condanna al domicilio coatto per tutti coloro che venivano considerati vagabondi, persone senza occupazione fissa, sospetti manutengoli, camorristi e loro fiancheggiatori.
In ogni provincia “infetta” venne istituito un Consiglio inquisitore con il compito di stendere una lista di sospetti briganti
che potevano essere arrestati o, in caso di resistenza, uccisi. Essere nella lista costituiva di per sé prova d’accusa, ma
chiunque poteva avanzare accuse contro altri, anche senza fondamento, magari per consumare una vendetta privata.
Dare la caccia ai briganti divenne un’attività redditizia perché fu concessa la facoltà di istituire milizie volontarie e furono
stabiliti premi in denaro per ogni brigante arrestato o ucciso.
In Sicilia furono perseguitati non solo i renitenti, ma anche i loro parenti e persino i loro concittadini: interi villaggi
vennero occupati militarmente per rappresaglia, attuando una punizione collettiva contraria a qualunque diritto
costituzionale.
La legge infine stanziò nuovi fondi destinati al rafforzamento delle forze armate.
Proteste
La legge era stata approvata alla Camera con soli 33 voti contrari su 207 votanti, ma molto presto si levarono critiche e
proteste da parte di deputati meridionali e della sinistra.
Il 29 aprile 1862, il senatore Giuseppe Ferrari affermava:
Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi.
Il 5 dicembre 1863, il deputato autonomista siciliano Vito d’Ondes Reggio, che aveva inutilmente chiesto la possibilità
per gli accusati di avere testimoni di difesa, accusò: «Dunque, volete sotto il Governo d’uno Statuto, introdurre tribunali
non solo straordinarii, ma mostruosi, perché mostruosi son quelli, nei quali negasi la difesa all’imputato, al calunniato,
all’innocente.»
Nel 1864, Vincenzo Padula scriveva:
Il brigantaggio è un gran male, ma male più grande è la sua repressione. Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l’immoralità dei mezzi, onde quella caccia deve governarsi per necessità, ha corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, ed i più lontani congiunti; e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine, ora di chi comanda, ora di chi esegue quegli arresti.
Risultati
Nel corso della lotta al brigantaggio furono impiegati centoventimila soldati, quasi la metà dell’esercito unitario di quegli anni.
La legge Pica fino a tutto il dicembre 1865 arrivò a eliminare da paesi e campagne circa 14.000 briganti o presunti tali:
-
12.000 tra arrestati e deportati;
-
2218 i condannati.
Nonostante tale rigore, la legge Pica non riuscì a debellare completamente l’attività insurrezionale nel Meridione, anche se la diminuì notevolmente.
Infatti fenomeni di brigantaggio continuarono anche negli anni seguenti.
Guida alla Lettura
1) Perché la legge Pica, invece di essere una disposizione eccezionale e temporanea, rimase in vigore per più di tre anni?
2) Quale immagine del Meridione avevano i parlamentari che la votarono?
3) Se fossi stato un deputato in Parlamento, avresti votato a favore della legge o avresti proposto qualcosa d’altro?
4) Quali sono le principali critiche che potresti fare alla legge Pica?
5) Perché una punizione collettiva è contraria al diritto costituzionale?
6) Quali conseguenze di lungo termine pensi che la repressione del brigantaggio abbia lasciato sia nel Meridione che nel resto d’Italia?