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Silvio Pellico

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«Io amo appassionatamente la mia patria, 
ma non odio alcun’altra nazione».
Silvio Pellico, Le mie prigioni, 1832

Silvio Pellico nacque a Saluzzo nel 1789. Dopo aver studiato a Pinerolo, a Torino e a Lione rientrò in Italia nel 1809 e si stabilì a Milano. Qui conobbe Monti e Foscolo, Federico Confalonieri e Porro Lambertenghi, dei cui figli divenne istitutore.
Cominciò a scrivere, all’incirca dal 1812, specialmente per il teatro, soprattutto tragedie. Famosa la sua Francesca da Rimini (1815) ispirata a Dante e di contenuto vagamente romantico e patriottico. Lavorò con Giovanni Berchet alla redazione del «Conciliatore» e per qualche tempo fu direttore della rivista, su cui si pubblicavano articoli di letteratura e attualità ispirati agli ideali romantici e risorgimentali.
Fu proprio per i suoi ideali e le sue conoscenze che nel 1820 venne arrestato, insieme a Piero Maroncelli, patriota e musicista napoletano, e ad altri con l’accusa di Carboneria: fu condannato a morte, ma la sentenza fu commutata in quindici anni di carcere duro, da scontare nella fortezza dello Spielberg, in Moravia. Nel 1830 arrivò la grazia imperiale e, tornato in Italia, lo scrittore si stabilì a Torino ritirandosi dalla politica attiva, continuando a scrivere poemi e tragedie.

Non dimenticò l’esperienza del carcere, che narrò nell’opera memorialistica Le mie prigioni, del 1832. Nel libro racconta l’arresto, la vita in carcere e la liberazione. Pellico racconta dei compagni di prigionia (famosa la descrizione dell’amputazione di una gamba all’amico Piero Maroncelli, suo compagno di cella negli ultimi anni). Parla anche dei carcerieri, delle guardie e dei cappellani del carcere, senza astio, anzi con affetto e gratitudine, anche per la fede religiosa ritrovata, che gli infuse rassegnazione e speranza e che lo portò, negli ultimi anni di vita, a divenire terziario francescano (laico).

Le mie prigioni divenne uno dei testi fondamentali per la formazione dei giovani patrioti durante gli anni del Risorgimento. Il principe di Metternich disse che il libro era costato all’Austria più di una battaglia perduta. Pellico morì a Torino nel gennaio 1854.

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