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Le mie prigioni

Vengono qui riportati alcuni brani tratti da Le mie prigioni di Silvio Pellico, relativi alla lettura della sentenza e all’arrivo in carcere.
Leggili con attenzione per capire la realtà del carcere e gli atteggiamenti delle persone coinvolte: Pellico stesso, i giudici e i carcerieri. Per capire a fondo i testi utilizza le indicazioni della Guida alla Lettura.

 

 

La sentenza

 

Il dì seguente, 21 febbraio (1822), il custode viene a prendermi: erano le dieci antimeridiane. Mi conduce nella sale della Commissione, e si ritira. Stavano seduti, e si alzarono, il presidente, l’inquisitore e i due giudici assistenti.
Il presidente, con atto di nobile commiserazione, mi disse che la sentenza era venuta, e che il giudizio era stato terribile, ma già l’Imperatore l’aveva mitigato.
L’inquisitore mi lesse la sentenza: «Condannato a morte». Poi lesse il rescritto imperiale: «La pena è commutata in quindici anni di carcere duro, da scontarsi nella fortezza di Spielberg».
Risposi: «Sia fatta la volontà di Dio!».
E mia intenzione era veramente di ricevere da cristiano questo orrendo colpo, e non mostrare né nutrire risentimento contro chicchessia.

Il presidente lodò la mia tranquillità, e mi consigliò a serbarla sempre, dicendomi che da questa tranquillità potea dipendere l’essere forse, fra due o tre anni, creduto meritevole di maggior grazia. (Invece di due o tre, furono poi molti di più.)
Anche gli altri giudici mi volsero parole di gentilezza e di speranza. Ma uno di loro che nel processo m’era ognora sembrato molto ostile, mi disse alcun che di cortese che pur pareami pungente; e quella cortesia giudicai che fosse smentita dagli sguardi, ne’ quali avrei giurato essere un riso di gioia e d’insulto.
Or non giurerei più che fosse così: posso benissimo essermi ingannato. [...]
«Dimani» disse l’inquisitore «ci rincresce di doverle annunciare la sentenza in pubblico; ma è formalità impreteribile».
«Sia pure» dissi.
«Da quest’istante le concediamo» soggiunse «la compagnia del suo amico».
E chiamato il custode, mi consegnarono di nuovo a lui, dicendogli che fossi messo con Maroncelli. [...]
Alle 9 antimeridiane, Maroncelli ed io fummo fatti entrare in gondola, e ci condussero in città. Approdammo al palazzo del Doge, e salimmo alle carceri. [...] Nove o dieci sbirri sedeano a farci guardia, e noi passeggiando aspettavamo l’istante di esser tratti in piazza. L’aspettazione fu lunga. Comparve soltanto a mezzodì l’inquisitore, ad annunciarci che bisognava andare. Il medico si presentò, suggerendoci di bere un bicchierino d’acqua di menta; accettammo, e fummo grati, non tanto di questa, quanto della profonda compassione che il buon vecchio ci dimostrava. Era il dottor Dosmo. S’avanzò quindi il capo-sbirro, e ci pose le manette. Seguimmo lui, accompagnati dagli altri sbirri.
[...] A mezzo della piazzetta era il palco ove dovemmo salire. [...] Montati là sopra, guardammo intorno, e vedemmo in quell’immenso popolo il terrore. Per varie parti in lontananza schieravansi altri armati. Ci fu detto, esservi i cannoni colle micce accese dappertutto. [...]
Il capitano tedesco gridò che ci volgessimo verso il palazzo e guardassimo in alto. Obbedimmo, e vedemmo sulla loggia un curiale con una carta in mano. Era la sentenza. La lesse con voce elevata.
Regnò profondo silenzio sino all’espressione: condannati a morte. Allora s’alzò un generale mormorio di compassione. Successe nuovo silenzio per udire il resto della lettura. Nuovo mormorio s’alzò all’espressione: condannati a carcere duro, Maroncelli per vent’anni, e Pellico per quindici. Il capitano ci fe’ cenno di scendere. Gettammo un’altra volta lo sguardo intorno, e scendemmo. [...]

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Brno,_Špilberk_od_Žlutého_kopce_vyrez

La fortezza-carcere dello Spielberg si trova nei pressi della città di Brno nella regione della Moravia meridionale (Repubblica Ceca)

Il carcere e il carceriere Schiller

 

Arrivammo al luogo della nostra destinazione il 10 di aprile.
La città di Brünn è capitale della Moravia, ed ivi risiede il governatore delle due provincie di Moravia e Slesia. È situata in una valle ridente, ed ha un certo aspetto di ricchezza. Molte manifatture di panni prosperavano ivi allora, le quali poscia decaddero; la popolazione era di circa 30 mila anime.
Accosto alle sue mura, a ponente, s’alza un monticello, e sovr’esso siede l’infausta rocca di Spielberg, altre volte reggia de’ signori di Moravia, oggi il più severo ergastolo della monarchia austriaca. [...] Circa trecento condannati, per lo più ladri ed assassini, sono ivi custoditi, quali a carcere duro, quali a durissimo.
Il carcere duro significa essere obbligati al lavoro, portare la catena ai piedi, dormire su nudi tavolacci, e mangiare il più povero cibo immaginabile. Il durissimo significa essere incatenati più orribilmente, con una cerchia di ferro intorno a’ fianchi, e la catena infitta nel muro in guisa che appena si possa camminare rasente il tavolaccio che serve di letto: il cibo è lo stesso, quantunque la legge dica: pane ed acqua.
Noi, prigionieri di Stato, eravamo condannati al carcere duro. [...]
Partito di Venezia in cattiva salute, il viaggio m’avea stancato miseramente. La testa e tutto il corpo mi dolevano: ardea dalla febbre. Il male fisico contribuiva a tenermi iracondo, e probabilmente l’ira aggravava il male fisico.

Fummo consegnati al soprintendente dello Spielberg, ed i nostri nomi vennero da questo inscritti fra i nomi de’ ladroni. Il commissario imperiale ripartendo ci abbracciò, ed era intenerito;
«Raccomando a lor signori particolarmente la docilità:» diss’egli «la minima infrazione alla disciplina può venir punita dal signor soprintendente con pene severe».
Fatta la consegna, Maroncelli ed io fummo condotti in un corridoio sotterraneo, dove ci s’apersero due tenebrose stanze non contigue. Ciascuno di noi fu chiuso nel suo covile. [...]
Allorché mi trovai solo in quell’orrido antro, e intesi serrarsi i catenacci, e distinsi, al barlume che discendeva da alto finestruolo, il nudo pancone datomi per letto, ed una enorme catena al muro, m’assisi fremente su quel letto, e, presa quella catena, ne misurai la lunghezza, pensando fosse destinata per me.
Mezz’ora dappoi, ecco stridere le chiavi; la porta s’apre: il capocarceriere mi portava una brocca d’acqua.
«Questo è per bere;» disse con voce burbera «e domattina porterò la pagnotta».
«Grazie, buon uomo».
«Non sono buono» riprese.
«Peggio per voi» gli dissi sdegnato. «E questa catena,» soggiunsi «è forse per me?».

«Sì, signore, se mai ella non fosse quieta, se infuriasse, se dicesse insolenze. Ma se sarà ragionevole, non le porremo altro che una catena a’ piedi. Il fabbro la sta apparecchiando».
Ei passeggiava lentamente su e giù, agitando quel villano mazzo di grosse chiavi, ed io con occhio irato mirava la sua gigantesca, magra, vecchia persona; e, ad onta de’ lineamenti non volgari del suo volto, tutto in lui mi sembrava l’espressione odiosissima d’un brutale rigore!
Oh come gli uomini sono ingiusti, giudicando dall’apparenza e secondo le loro superbe prevenzioni! Colui ch’io m’immaginava agitasse allegramente le chiavi per farmi sentire la sua trista podestà, colui ch’io riputava impudente per lunga consuetudine d’incrudelire, volgea pensieri di compassione, e certamente non parlava a quel modo, con accento burbero, se non per nascondere questo sentimento. Avrebbe voluto nasconderlo, a fine di non parer debole e per timore ch’io ne fossi indegno; ma nello stesso tempo, supponendo che forse io era più infelice che iniquo, avrebbe desiderato di palesarmelo. Noiato della sua presenza, e più della sua aria da padrone, stimai opportuno d’umiliarlo, dicendogli imperiosamente, quasi a servitore:
«Datemi da bere».
Ei mi guardò, e parea significare: "Arrogante! qui bisogna divezzarsi dal comandare".
Ma tacque, chinò la sua lunga schiena, prese in terra la brocca, e me la porse. M’avvidi, pigliandola, ch’ei tremava, e attribuendo quel tremito alla sua vecchiezza, un misto di pietà e di reverenza temperò il mio orgoglio.
«Quanti anni avete?» gli dissi con voce amorevole.
«Settantaquattro, signore: ho già veduto molte sventure e mie ed altrui».
Questo cenno sulle sventure sue ed altrui fu accompagnato da nuovo tremito nell’atto ch’ei ripigliava la brocca; e dubitai fosse effetto, non della sola età, ma d’un certo nobile perturbamento. Siffatto dubbio cancellò dall’anima mia l’odio che il suo primo aspetto m’aveva impresso.
«Come vi chiamate?» gli dissi.
«La fortuna, signore, si burlò di me, dandomi il nome d’un grand’uomo. Mi chiamo Schiller».
Indi in poche parole mi narrò qual fosse il suo paese, quale l’origine, quali le guerre vedute e le ferite riportate. [...]
Insomma, entratomi alquanto in grazia il vecchio Schiller, lo guardai più attentamente di prima, e non mi dispiacque più. A dir vero, nel suo favellare, in mezzo a certa rozzezza, eranvi anche tratti d’anima gentile.

«Caporale qual sono,» diceva egli «m’è toccato per luogo di riposo il tristo ufficio di carceriere: e Dio sa, se non mi costa assai più rincrescimento che il rischiare la vita in battaglia!».
Mi pentii di avergli dimandato con alterigia da bere.
«Mio caro Schiller» gli dissi, stringendogli la mano «voi lo negate indarno, io conosco che siete buono, e poiché sono caduto in quest’avversità, ringrazio il Cielo di avermi dato voi per guardiano».
Egli ascoltò le mie parole, scosse il capo, indi rispose, fregandosi la fronte, come uomo che ha un pensiero molesto:
«Io sono cattivo, o signore; mi fecero prestare un giuramento, a cui non mancherò mai. Sono obbligato a trattare tutti i prigionieri senza riguardo alla loro condizione, senza indulgenza, senza concessione d’abusi, e tanto più i prigionieri di Stato. L’Imperatore sa quello che fa; io debbo obbedirgli». «Povero signore! abbia pazienza, e mi compatisca. Sarò ferreo ne’ miei doveri, ma il cuore... il cuore è pieno di rammarico di non poter sollevare gl’infelici. Questa è la cosa ch’io volea dirle».
Ambi eravamo commossi. Mi supplicò d’essere quieto, di non andare in furore, come fanno spesso i condannati, di non costringerlo a trattarmi duramente.
Prese poscia un accento ruvido, quasi per celarmi una parte della sua pietà, e disse:
«Or bisogna ch’io me ne vada».
Poi tornò indietro, chiedendomi da quanto tempo io tossissi così miseramente com’io faceva, e scagliò una grossa maledizione contro il medico, perché non veniva in quella sera stessa a visitarmi.
«Ella ha una febbre da cavallo» soggiunse «io me ne intendo. Avrebbe d’uopo almeno d’un pagliericcio, ma finché il medico non l’ha ordinato, non possiamo darglielo».
Uscì, richiuse la porta, ed io mi sdraiai sulle dure tavole, febbricitante sì, e con forte dolore di petto, ma meno fremente, meno nemico degli uomini, meno lontano da Dio.

Da Pellico S., Le mie prigioni, in: http://www.liberliber.it, pp. 95-96, 98-99, 104-109.

Guida alla Lettura

I luoghi

1) Dove si trovano Pellico e il suo amico quando viene pronunciata e poi letta pubblicamente la sentenza? Quali elementi del testo ce lo fanno capire? Trascrivili.


2) Come mai i due patrioti sono stati portati là? Fai la tua ipotesi riferendoti alla biografia di Pellico e al Regno lombardo-veneto nel 1821.


3) Per scontare la pena entrambi vengono portati nel carcere dello Spielberg? Dove si trova? Individualo sulla carta geografica e traccia il percorso compiuto dai due patrioti dalla lettura pubblica della sentenza all’arrivo in prigione.

 

Giudici e carcerieri

1) Individua e sottolinea nel testo le parole che descrivono azioni e atteggiamenti di guardie, giudici e carcerieri. Sottolinea anche le parole che rivolgono a Pellico. Quali sentimenti Pellico attribuisce a loro, come interpreta gesti e parole? Quale effetto hanno su Silvio Pellico?


2) Puoi costruire una tabella riassuntiva in cui riportare i termini usati dall’autore o scrivere una breve sintesi citando le parole di Silvio Pellico.


3) Come reagisce Pellico alle parole del carceriere Schiller al suo arrivo in carcere? Il suo atteggiamento cambia? Perché?

 

Il carcere

1) Individua nel testo e sottolinea le condizioni previste per il carcere duro e le condizioni previste per il carcere durissimo, relativamente al cibo, al giaciglio, alle catene e al lavoro. Puoi costruire una tabella che faciliti il confronto.


2) Silvio Pellico, al suo arrivo in carcere, è malato. Questo gli consente di ottenere un piccolo miglioramento nelle condizioni di detenzione: quale?

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