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Ma quanti erano i Mille? (L. Bianciardi)

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In La battaglia soda (pubblicato nel 1964) Luciano Bianciardi ci racconta che cosa succede dallo scioglimento dell’esercito meridionale fino alla sconfitta di Custoza (1866). Lo scrittore nel romanzo assume i panni del garibaldino Giuseppe Bandi, che nell’opera I Mille, da Genova a Capua, ci ha lasciato una testimonianza diretta della spedizione. In questo passo l’ex garibaldino Bianciardi-Bandi, divenuto ufficiale dell’esercito italiano, è appunto impegnato nel conteggio dei Mille.

Si doveva appunto fare l'elenco degli sbarcati a Marsala, e dove una settimana mi sarebbe sembrata d'avanzo, da come si mettevano le cose io capivo che un anno non ci avrebbe portati a capo dell'impresa. Perché infatti lo stato maggiore pareva essercisi messo di picca a volere le cose fatte e rifatte le mille volte. I nomi degli sbarcati si traevano dai ruolini delle compagnie, scritti dapprima in Talamone, quando tutti presero terra e ci si poté guardare in faccia con comodo dopo il trambusto di Quarto, e dividere i fanti dai cavalieri – che però non ebbero cavalcatura – e assegnare le compagnie secondo la provenienza di ciascheduno o il capriccio delle simpatie o la necessità del numero. […] 
Allo stesso modo non vollero capacitarsi di come gli sbarcati crescessero di quattro rispetto agli imbarcati in Talamone, né vollero star a sentire le mie ragioni quando spiegai loro che da Orbetello s'erano aggiunti alla nostra brigata quattro volenterosi, che furono per la storia Giuseppe Fineschi, Antonio Raveggi, Valeriane Devitte e Angiolo Velasco. Costoro, per la caparbietà dei piemontesi, non figurarono mai nell'elenco dei Mille, e persino Desiderato Petri, che vidi io coi miei occhi cadere da prode a Calatafimi, primo morto della gloriosa spedizione, non entrò mai in quel novero; perché era giunto in Marsala come cameriere a bordo del Piemonte e non figurava fra i combattenti. 
Inutile ch'io dica come crescesse in me il fastidio, che rasentò i toni dell'ira quando una nuova lettera mi comandò di
segnare accanto a ciascun nome la nazionalità del volontario. Pareva giusto a me, ma non ai miei caporioni, che tutti si dovessero chiamare italiani, come quelli che per la causa italiana s'erano battuti e anche eran morti, e questo appunto cercai di far intendere in alto loco, ma senza risultati. Cosi s'arrivò al punto di scrivere non solamente ungherese accanto al nome di Stefano Türr, ma finanche austriaco accanto al nome di chi era nato nella Venezia o nel Tirolo italiano, e addirittura uruguaiano accanto al nome di Menotti Garibaldi. Quando poi il comando volle che Giuseppe Garibaldi figurasse come francese, essendo Nizza città oggi sita in territorio francese, […] la rabbia mia fu lì lì per traboccare, e non so come riescii a tenermi in cristi e a non mandare a quel paese l'elenco dei Mille, lo stanzone della caserma Cernaia coi miei quaranta grattacarte e il generale Fanti in persona, con il suo codazzo spocchioso di lustrissimi signori generali. 

 


Da Bianciardi L., La battaglia soda, Bompiani, Milano 2003 (1° edizione Rizzoli 1964).  

 

 

 

Guida alla Lettura  

    
1) Come mai i conti non tornano fra gli imbarcati a Talamone e gli sbarcati a Marsala? Che cosa non riescono a capire i capi dello Stato Maggiore?
 
2) Perché l’attribuzione della nazionalità si rivela una procedura complicata? Rifletti sul contesto politico del tempo e rispondi.
 
3) Che cosa in particolare fa molto arrabbiare chi racconta la storia?
 
4) Tu che cosa ne pensi? Esprimi la tua opinione in proposito dopo aver confrontato l’elenco dei garibaldini stranieri sul sito Wikipedia.    

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