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Il prestito del grano (da Signora Ava di Francesco Jovine)

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Signora Ava è un romanzo storico di Francesco Jovine, ambientato a Guardialfiera, un centro del Molise, fra il 1859 e il 1861, mentre con la Seconda guerra d’indipendenza, l’annessione delle regioni centrali e la conquista garibaldina del Sud si va compiendo l’unità d’Italia. Il paese però sembra molto lontano da tutti questi rivolgimenti: i contadini, accompagnati dal prete Don Matteo, vanno dal signorotto del posto a farsi prestare il grano per la semina, così come avevano fatto negli anni e nelle generazioni passati.

Don Matteo, seguito dai contadini, scese lungo la strada che costeggiava la casa, girò l’angolo del fabbricato, si fermò vicino alla porta del magazzino, trasse dalla tasca una grossa chiave ed aprì.
Entrarono: uno dei contadini, Giuseppe Grande, aveva una lanterna cieca, la mise su un tavolo e andò, seguito dagli altri, a sedersi su una panca.
«Chiudi», fece Don Matteo, «che entra l’acqua.»
Quello chiuse e il gruppo rimase nella semioscurità ad attendere. Carlo Antenucci chiese:
«Che ore saranno?»
«Un’ora prima di giorno», rispose una voce roca dalla raucedine del mattino e aggiunse:
«A che ora viene Don Eutichio? Non ci farà perdere la giornata. Sono giorni corti questi della semina, Don Matteo, se non s’incomincia presto...»
Don Matteo rispose un po’ spazientito:
«Verrà, verrà; è mattiniero, Pietro deve essere andato a svegliarlo.» Don Matteo s’era seduto al tavolo dov’era posata la lanterna e fissava la debole fiamma dell’interno, con concentrazione apparente. La luce gl’illuminava il volto ossuto: e i riflessi gli giocavano sulle gote e nelle orbite, dandogli un aspetto vagamente sinistro.
Nonostante la porta chiusa, dalle finestre ovali a sbarre di ferro ma senza invetriate, venivano folate di vento umido e il sibilo quieto della pioggerella novembrina. Di tanto in tanto alla porta si udiva un picchio; qualcuno si alzava per aprire e un nuovo tabarro umido entrava nella stanza con un:
«Buon giorno», roco.
Gli altri seduti sulla panca si stringevano silenziosi e gli facevano posto.
Poi tutto tornava immobile: le masse scure dei contadini seduti venivano incertamente rivelate dalla luce oscillante della lanterna che aveva qualche guizzo stanco.
Poi uno di essi disse come risultato di una lunga riflessione per avere ascoltato la pioggia che ora pareva infittisse:
«Se rinforza l’acqua, oggi non si semina.» Dall’altra estremità della panca una voce rispose:
«Quando fa giorno cessa; di novembre fa sempre così.»
«Eh, eh,» fece Giuseppe Grande, «sempre sempre; mi ricordo l’anno del colera grosso, piovve quasi fino a Natale un diluvio di cinquanta giorni che si portò via tutti i maggesi: seminammo alla fine dell’anno.»
Un vago interesse pareva ridestarsi nel gruppo e un’altra voce interrogò:
«E il raccolto fu buono?»
Quello che aveva parlato dell’anno del colera ebbe una breve risata:
«Come buono? A giugno non aveva ancora allegato ed era già secco: paglia, buona paglia. Andò bene per gli animali ma non per i cristiani. Passammo un inverno! Ci caricammo tutti di debiti.»
Nessuno più parlò. Forse tutti tendevano l’orecchio all’impercettibile gorgoglio dei rivoli che scorrevano lungo la strada scoscesa e pensavano all’acqua che poteva durare cinquanta giorni.
Poi il giorno si annunziò con un livido fiato che sbadigliò nella stanza una luce grigiastra e incrinò pigramente l’ombra.
Tutti ebbero l’impressione che il freddo fosse cresciuto, ci fu qualche battito di piedi sull’impiantito; le teste affondavano nei baveri. Qui entrò Pietro, rapido: portava un braciere acceso: entrato, tolse il coperchio di ottone e annunziò:
«Ora viene.»
L’annunzio e la visione dei carboni vivi rincuorarono i contadini che dissero:
«Bravo Pietro, bravo.»
Si alzarono quasi simultaneamente in piedi e stesero le dure nodose mani verso il fuoco. Il poco calore che emanava dalla brace e il giorno che faticosamente si faceva strada fra la caligine avevano tirato un po’ i muscoli contratti dei visi ispidi.
Entrò Michele Tucci: un uomo alto e magro dal viso pallido e patito. Sulle guance flaccide e incavate aveva una barba a boccoli grigiastri, e un paio di baffi radi con gli orli giallicci. Era vestito in una strana foggia: a mezzo tra il galantuomo e il cafone. Portava una giamberga color nocciola troppo corta per le sue lunghe gambe ricoperte di brache che arrivavano al ginocchio e calze di grossa lana. Era scrivano e testimone di professione. Doveva avere addosso un freddo terribile perché aveva gli occhi grigiastri ansiosi e molli.
Gli fecero largo rispondendo appena al suo saluto. Michele Tucci si piegò sulle ginocchia e si accoccolò come una chioccia sul braciere. Tutti si misero a guardargli la testa, ostilmente come avessero voglia di darle una pestata. Carlo Antenucci disse all’improvviso:
«Scaldati bene la mano che fa le firme false.»
Tutti risero. Michele Tucci si alzò inviperito:
«Ci metto la coscienza io, nelle cose, capito?»
Marco Velardi gli prese serissimo le falde del cappello a fungo e glielo calzò fino al naso. Il vecchio Michele Tucci con gli occhi bendati dal cappello strinse i pugni minacciosamente.
Don Matteo si alzò dal suo posto, lo prese per una mano e lo mise a sedere vicino al tavolo; gli tirò su il cappello e gli batté sulla spalla con un gesto di protezione; poi, rivolto al giovane contadino che rideva maliziosamente, gli disse strizzando l’occhio:
«Tu devi rispettare la vecchiaia.»
Don Eutichio arrivò finalmente: se ne intese il piccolo soffio asmatico fin dalla strada. Quando fu entrato, i contadini si scostarono dal fuoco e tornarono a sedere sulla panca. Ora la luce illuminava pienamente la breve stanza dai muri umidi e scrostati che era divisa dai magazzini da un cancello di legno alto fino al soffitto.
Don Eutichio aveva sulle spalle una vecchia coperta grigia e se la stringeva sul magro petto per difenderlo dal freddo: aveva viso breve e scarno, con gli zigomi rialzati e la bocca larga e sottile: era malato di asma cronica: respirava gonfiando le magre guance ed emettendo il fiato con un rumore leggermente fischiante.
Per qualche attimo, nello sforzo della respirazione il suo breve viso tondeggiava e si ricopriva di un effimero velo rosa, acquistando un aspetto comicamente puerile. Nelle pause del respiro le guance ritornavano cave e pallide e gli occhi infossati e tetri.
Michele Tucci aveva tirato fuori da una tasca della giamberga un pacchetto di contratti per il prestito del grano; Don Eutichio se l’era messo davanti e lo esaminava con apparente distrazione. Il suo penoso respiro dava l’impressione che seguire le cifre e i nomi gli desse molto fastidio, che fosse lì per una specie di obbligo al quale si sarebbe volentieri sottratto.
Poi distoglieva lo sguardo dalle carte e girava gli occhi spenti e malinconici dalla parte ove Pietro veniva misurando il grano.
Pietro empiva il mezzetto di ferro e poi vi passava sopra il matterello per livellare il volume:
«Raso Pietro, ben raso», diceva di tanto in tanto Don Eutichio con voce appannata, e Pietro rispondeva: «Sissignore», e passava coscienziosamente il matterello sul mezzetto; poi lo sollevava, e lo vuotava nel sacco che il contadino teneva aperto, serrando un lembo dell’imbocco con i denti e abbrancando gli altri con le mani.
Michele Tucci scandiva: «E uno, e due, e tre, e quattro.»
Quando il sacco era pieno il contadino si avvicinava al tavolo, prendeva con goffa leggerezza la penna d’oca in mano e tracciava il segno di croce; poi firmava Michele Tucci con una bella firma a svolazzi. Seguiva Don Matteo il quale, mettendo fine alla diffidente trepidazione del contadino, dopo aver firmato aggiungeva con un tono curialesco ma familiare e conciliante:
«Giuseppe Grande riceve in prestito cinque tomola di grano che restituirà di buona qualità come ha avuto, nell’agosto del 1860.»
«Ma sono state quattro le tomola: come vengono fuori cinque...»
«I quattro quarti dell’aumento figlio...» diceva persuasivo Don Matteo. Don Eutichio allargava le braccia senza parlare ma i suoi occhi volevano esprimere tutta la pazienza che occorreva per fare del bene a quella gente.
Giuseppe Grande non era persuaso e mormorò tra i denti:
«Pago cinque e poi non pago l’interesse; perché poi se qualcuno mi dice: cinque c’è scritto qui, ma l’aumento lo devi sempre pagare?»
Gli altri che erano in attesa col sacco sotto il braccio approvavano: «Giusto, giusto, bisognava mettere in chiaro la cosa.» Michele Tucci aveva preso uno dei contratti, vi batteva su con la mano e diceva:
«Ma basta con le chiacchiere: carta canta, carta canta. Quello che c’è scritto paghi.»
Qui Don Eutichio parlò; parlò a interiezioni, a soffi, a sospiri, facendo comprendere a tutti che il costringerlo a parlare era una cattiva azione, che lui era buono, buonissimo, si fidava di tutti e che era una cattiveria da parte dei beneficati tutta quella diffidenza. Il suo bel grano usciva dai magazzini, andava nei solchi seppellito, ed entrava nelle mani di Dio; ma lui aveva dato: questo era certo. Avrebbe riavuto?
Qui s’interruppe perché lo colse la tosse, un colpo di tosse stizzoso a sibili, a miagolii aspri, rugginosi: pareva avesse in gola un mazzo di chiodi.
Michele Tucci si alzò premuroso e incominciò a battergli con il palmo aperto sulle spalle: Don Eutichio si calmò finalmente.
Michele Tucci, contento della sollecitudine amorosa dimostrata al suo padrone prese a redarguire i cafoni per la loro ignoranza, Non erano in grado di capire la bontà che c’era nei ricchi e nelle persone istruite come lui. Ne faceva appello anche a Don Matteo, il quale lo ascoltava con un sorriso canzonatorio. Poi per farlo tacere gli abbrancò le falde della giamberga e lo costrinse a sedere. Carlo Antenucci strizzò l’occhio a Don Matteo. Intanto gli altri avevano via via il loro grano e facevano il segno di croce e poi guardavano il prete per avere da lui la conferma che quel ladro di Michele Tucci non li aveva ingannati. Don Matteo con la mano levata faceva cenno che potevano andare: rispondeva lui della correttezza dell’operazione. Ed infatti il prete controllava via via le cifre e i nomi. Del venticinque per cento d’interesse calcolato prima non si meravigliava: era l’uso: sempre così, un quarto a tomolo, da tempo immemorabile. Ed era giusto: “Ti prestano il grano per seminare e con un tomolo, se Iddio ti aiuta, tu ne fai otto o dieci; un quarto di tomolo a chi te lo ha prestato è giusto, più che giusto”.
Don Matteo, naturalmente, che non aveva in testa che una idea, alla volta, non pensava che in questo moltiplicarsi del grano oltre alla collaborazione di Don Eutichio e del Padreterno occorreva anche un lungo lavoro di quelle povere braccia.
Fuori pioveva ancora: i contadini, chiuso l’imbocco dei sacchi, li avevano abbracciati amorosamente alla cintola e li portavano fuori un po’ sollevandoli, un po’ sospingendoli con la pressione delle ginocchia. Sotto la pioggia sempre fitta ed uguale se ne andarono.

 

Da Jovine F., Signora Ava, Donzelli editore, Roma 2010, pp. 54-58.

Attività

Dopo aver letto con attenzione il testo, rispondi alle seguenti domande.

  1. In questa scena si fronteggiano i contadini e il proprietario che “presta” loro il grano. Dove si sono dati appuntamento i contadini e perché?

  2. In quale ora del giorno e in quale periodo dell’anno si svolge la vicenda?

  3. Quali personaggi, oltre ai contadini e al signorotto locale Don Eutichio, partecipano alla scena? Chi sono, come sono presentati, quale funzione svolgono nel prestito del grano? Completa la tabella.

4. Come viene distribuito il grano? Indica gli strumenti utilizzati e come si comporta Don Eutichio.

5. Quanta percentuale del grano prestato dovrà essere restituita e entro quale scadenza? Esprimi il tuo giudizio in merito.

6. La rappresentazione che Francesco Jovine ci dà dei contadini meridionali e del loro rapporto con i proprietari terrieri nell’Italia dell’unità ti sembra coerente con quanto riportato nell’unità La proprietà della terra e il lavoro agricolo? Spiega il tuo punto di vista.

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