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Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - Il completamento dell’unità e la costruzione dello Stato - 2 SPAZI, TEMPI, EVENTI - 2.4 La Terza guerra d'indipendenza - I Malavoglia: la sconfitta di Lissa 

I Malavoglia: la sconfitta di Lissa

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Ne I Malavoglia, pubblicato nel 1881, Giovanni Verga racconta la vicenda di una famiglia di pescatori di Aci Trezza, un comune in provincia di Catania. Sullo sfondo la storia dell’Italia, che si va facendo nazione grande e indipendente, incrocia e determina i destini della famiglia.

Le nuove leggi dello stato italiano prevedevano il servizio militare obbligatorio per un lungo periodo. Così la leva si porterà via dapprima ‘Ntoni, il maggiore dei Malavoglia, e poi Luca, il secondogenito.

Ma, mentre alla morte del padre scomparso in mare per un naufragio, ‘Ntoni potrà tornare a casa per aiutare la famiglia, Luca sarà obbligato a partire e perirà con la sua nave, il Re d’Italia, nel disastro di Lissa (1866).

Nel passo seguente la notizia del disastro di Lissa arriva ad Aci Trezza, mentre in casa Malavoglia si sta festeggiando per le prossime nozze di Mena.

Frontespizio di un’edizione de I Malavoglia 

di Giovanni Verga del 1907

In quel crocchio, invece dell'asino caduto, c'erano due soldati di marina, col sacco in spalla e le teste fasciate, che tornavano in congedo. Intanto si erano fermati dal barbiere a farsi dare un bicchierino d'erbabianca. Raccontavano che si era combattuta una gran battaglia di mare, e si erano annegati dei bastimenti grandi come Aci Trezza, carichi zeppi di soldati; insomma un mondo di cose che parevano quelli che raccontano la storia d'Orlando e dei paladini di Francia alla Marina di Catania, e la gente stava ad ascoltare colle orecchie tese, fitta come le mosche.

– Il figlio di Maruzza la Longa ci era anche lui sul Re d'Italia, osservò don Silvestro, il quale si era accostato per sentire.

– Ora vado a dirlo a mia moglie! saltò su mastro Turi Zuppiddu, così si persuaderà ad andarci da comare Maruzza, ché i musi lunghi non mi piacciono, fra vicini ed amici.

Ma intanto la Longa non ne sapeva nulla, poveraccia! e rideva ed era in festa coi parenti e gli amici.

Il soldato non finiva di chiacchierare con quelli che volevano ascoltarlo, giocando colle braccia come un predicatore.

– Sì, c'erano anche dei siciliani; ce n'erano di tutti i paesi. Del resto, sapete, quando suona la generale nelle batterie, non si sente più né scia né vossia, e le carabine le fanno parlar tutti allo stesso modo. Bravi giovanotti tutti! e con del fegato sotto la camicia. Sentite, quando si è visto quello che hanno veduto questi occhi, e come ci stavano quei ragazzi a fare il loro dovere, per la Madonna! questo cappello qui lo si può portare sull'orecchio!

Il giovanotto aveva gli occhi lustri, ma diceva che non era nulla, ed era perché aveva bevuto. – Si chiamava il Re d'Italia, un bastimento come non ce n'erano altri, colla corazza, vuol dire come chi dicesse voi altre donne che avete il busto, e questo busto fosse di ferro, che potrebbero spararvi addosso una cannonata senza farvi nulla. È andato a fondo in un momento, e non l'abbiamo visto più, in mezzo al fumo, un fumo come se ci fossero state venti fornaci di mattone, lo sapete?

– A Catania c'era una casa del diavolo! aggiunse lo speziale. – La gente si affollava attorno a quelli che leggevano i giornali, che pareva una festa.

– I giornali son tutte menzogne stampate! sentenziò don Giammaria.

– Dicono che è stato un brutto affare; abbiamo perso una gran battaglia, disse don Silvestro.

Padron Cipolla era accorso anche lui a vedere cos'era quella folla.

– Voi ci credete? sogghignò egli alfine. Son chiacchiere per chiappare il soldo del giornale.

– Se lo dicono tutti che abbiamo perso!

– Che cosa? disse lo zio Crocifisso mettendosi la mano dietro l'orecchio.

– Una battaglia.

– Chi l'ha persa?

– Io, voi, tutti insomma, l'Italia; disse lo speziale.

– Io non ho perso nulla! rispose Campana di legno stringendosi nelle spalle […].

L'altro giovanotto poi raccontò pure in qual modo era saltata in aria la Palestro, – la quale ardeva come una catasta di legna, quando ci passò vicino, e le fiamme salivano alte sino alla penna di trinchetto. Tutti al loro posto però, quei ragazzi, nelle batterie o sul bastingaggio. Il nostro comandante domandò se avevano bisogno di nulla.

– No, grazie tante, risposero. Poi passò a babordo e non si vide più.

– Questa di morire arrostito non mi piacerebbe, conchiuse Spatu; ma pei pugni ci sto. E la Santuzza come tornò all'osteria gli disse: – Chiamateli qua, quei poveretti, che devono aver sete, dopo tanta strada che hanno fatto, e ci vuole un bicchiere di vino schietto. Quel Pizzuto avvelena la gente colla sua erbabianca, e non va a confessarsene. Certuni la coscienza l'hanno dietro le spalle, poveretti loro!

– A me mi sembrano tanti pazzi, costoro! diceva padron Cipolla soffiandosi il naso adagio adagio. Che vi fareste ammazzare voi quando il re vi dicesse: fatti ammazzare per conto mio?

– Poveracci, non ci hanno colpa! osservava don Silvestro. Devono farlo per forza, perché dietro ogni soldato ci sta un caporale col fucile carico, e non ha a far altro che star a vedere se il soldato vuol scappare, e se il soldato vuol scappare il caporale gli tira addosso peggio di un beccafico.

– Ah! così va bene! Ma è una bricconata bell'e buona!

Tutta la sera si rise e si bevette nel cortile dei Malavoglia, con un bel chiaro di luna; e sul tardi poi, quando tutti erano stanchi, e ruminavano lentamente le fave abbrustolite, e alcuni anche cantarellavano sottovoce, colle spalle al muro, vennero a raccontare la storia che avevano portato in paese i due congedati. […]  

Il giorno dopo cominciò a correre la voce che nel mare verso Trieste ci era stato un combattimento tra i bastimenti nostri e quelli dei nemici, che nessuno sapeva nemmeno chi fossero, ed era morta molta gente; chi raccontava la cosa in un modo e chi in un altro, a pezzi e bocconi, masticando le parole. Le vicine venivano colle mani sotto il grembiule a domandare se comare Maruzza ci avesse il suo Luca laggiù, e stavano a guardarla con tanto d'occhi prima d'andarsene. La povera donna cominciava a star sempre sulla porta, come ogni volta che succedeva una disgrazia, voltando la testa di qua e di là, da un capo all'altro della via, quasi aspettasse più presto del solito il suocero e i ragazzi dal mare. Le vicine le domandavano pure se Luca avesse scritto, o era molto che non riceveva lettera di lui. – […]

Coll'andare dei giorni però, nessuno parlava più di quello che era successo; ma come la Longa non vedeva spuntare la lettera, non aveva testa né di lavorare né di stare in casa; era sempre in giro a chiacchierare di porta in porta, quasi andasse cercando quel che voleva sapere.

– Avete visto una gatta quando ha perso i suoi gattini? dicevano le vicine.

La lettera non veniva però. Anche padron 'Ntoni non s'imbarcava più e stava sempre attaccato alle gonnelle della nuora come un cagnolino. Alcuni gli dicevano: – Andate a Catania che è paese grosso, e qualcosa sapranno dirvi.

Nel paese grosso il povero vecchio si sentiva perso peggio del trovarsi in mare di notte, e senza sapere dove drizzare il timone. Infine gli fecero la carità di dirgli che andasse dal capitano del porto, giacché le notizie doveva saperle lui.

Colà, dopo averlo rimandato per un pezzo da Erode a Pilato, si misero a sfogliare certi libracci e a cercare col dito sulla lista dei morti. Allorché arrivarono ad un nome, la Longa che non aveva ben udito, perché le fischiavano gli orecchi, e ascoltava bianca come quelle cartacce, sdrucciolò pian piano per terra, mezzo morta.

– Son più di quaranta giorni – conchiuse l'impiegato, chiudendo il registro. Fu a Lissa; che non lo sapevate ancora?

La Longa la portarono a casa su di un carro, e fu malata per alcuni giorni. D'allora in poi fu presa di una gran devozione per l'Addolorata che c'è sull'altare della chiesetta, e le pareva che quel corpo lungo e disteso sulle ginocchia della madre colle costole nere e i ginocchi rossi di sangue, fosse il ritratto del suo Luca, e si sentiva fitte nel cuore tutte quelle spade d'argento che ci aveva la Madonna. Ogni sera le donnicciuole, quando andavano a prendersi la benedizione, e compare Cirino faceva risuonare le chiavi prima di chiudere, la vedevano sempre lì, a quel posto, accasciata sui ginocchi, e la chiamavano anche lei la madre addolorata.

– Ha ragione – dicevano nel paese.

– Luca sarebbe tornato fra breve, e i suoi trenta soldi al giorno se li sarebbe guadagnati. «A nave rotta ogni vento è contrario».

– Avete visto padron 'Ntoni? aggiungeva Piedipapera; dopo la disgrazia di suo nipote sembra un gufo tale e quale.  – Adesso la casa del nespolo fa acqua davvero da tutte le parti, come una scarpa rotta, e ogni galantuomo bisogna che pensi ai suoi interessi.

Da Verga G., I Malavoglia, in: http://www.liberliber.it, pp. 155-162.

Guida alla Lettura

 

1) Chi porta la notizia del disastro di Lissa ad Aci Trezza?

2) Come viene raccontata la vicenda? Quale paragone utilizza il Verga? Sembra una vicenda reale o fantastica? Come reagiscono gli ascoltatori?

3) Confronta questa pagina di Verga con l'unità La sconfitta di Lissa e il processo a Persano.
Trovi corrispondenza fra i dati storici? Quale elemento, secondo la ricostruzione storica, rende particolarmente pesante il bilancio dei morti?

4) Perché, a tuo avviso, la morte di Luca è una doppia perdita per i Malavoglia? Nelle ultime battute osserva i riferimenti al suo salario e alla situazione critica della casa di famiglia (la casa del nespolo).

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