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L’impianto manualistico serve poco
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Bersaglieri e corazzieri
Fare l'Italia, fare gli italiani
Il processo di unificazione nazionale
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Bronte: storia di un eccidio
A Bronte, piccola città sulle falde dell’Etna, si verificò uno degli episodi più tragici del Risorgimento.
Molti abitanti di quel posto, come un po’ in tutta la Sicilia, avevano visto con favore l’arrivo di Garibaldi che prometteva di liberare l’isola dagli oppressori e di far nascere una società senza più miseria e ingiustizia. In particolare i contadini più poveri contavano sull’abolizione/eliminazione della tassa sul macinato e sulla distribuzione delle terre demaniali che Garibaldi aveva promesso nei suoi proclami iniziali. Ma le terre demaniali furono presto accaparrate dai borghesi più ricchi e quindi rabbia e disperazione andavano crescendo. Già in giugno e luglio ci furono insurrezioni in diversi paesi dell’isola al grido «Vulemu i terri!» o «Abbassu li cappeddi».
Il 2 agosto 1860 i contadini insorsero anche a Bronte, ma la sommossa degenerò: fino al 5 agosto la folla inferocita attaccò case e persone e alla fine i morti furono 16. I rivoltosi vollero a capo del Municipio Nicolò Lombardo, un avvocato liberale che era considerato uomo giusto e saggio e che dall’inizio della sommossa si era sempre adoperato per calmare gli animi e per evitare le azioni feroci, che pure si verificarono.
Ma il feudo più grande di Bronte apparteneva alla famiglia inglese Nelson. Era infatti un dono che il re Ferdinando di Borbone aveva offerto nel 1799 all’ammiraglio inglese Horatio Nelson come ricompensa per l’intervento della Marina inglese durante la Rivoluzione napoletana. Grazie a quell’intervento infatti, il re aveva potuto riconquistare il suo trono.
Perciò, quando la rivolta scoppiò a Bronte, il console inglese in Sicilia si affrettò a fare pressioni su Garibaldi perché intervenisse a sedarla. Il generale probabilmente si rendeva conto che, se voleva continuare la lotta contro i Borboni, non poteva perdere il sostegno della borghesia siciliana, né quello degli inglesi ai quali doveva molta parte del suo successo. Perciò ordinò a Bixio, che si trovava a Giardini vicino a Catania, di andare a Bronte.
Probabilmente non c’era nessun comandante garibaldino meno adatto di Bixio per intervenire in una situazione delicata come quella. Egli infatti arrivò a tappe forzate a Bronte e, anche se ormai la calma era tornata da molte ore e i principali insorti si erano dati alla fuga, intervenne con particolare durezza come appare dal suo proclama del 6 agosto: accusò l’intera città di “lesa umanità”, dichiarò lo stato d’assedio, ordinò l’immediata consegna delle armi di qualsiasi tipo e specie, sciolse il Municipio e la Guardia nazionale, rimise al loro posto gli amministratori precedenti che, con la loro cattiva gestione, erano stati una delle cause della rivolta. Impose anche all’intero paese una tassa di guerra che la popolazione senza distinzione di sorta fu costretta a depositare sul suo tavolo allo scadere di ogni ora.
Inoltre, per dare un esempio che servisse a bloccare qualunque altra futura rivolta, fece arrestare decine di persone senza curarsi di verificare come si erano svolti i fatti. Così molti furono imprigionati non perché avevano partecipato ai moti, ma per calunnie e vendette private. Con un processo farsa, in cui non venne presa in considerazione nessuna testimonianza a difesa degli imputati, cinque persone considerate capi della rivolta, tra i quali l’avvocato Lombardo e il matto del paese, furono condannati e immediatamente fucilati.
Il processo agli altri continuò per tre anni e alla fine vi furono 37 condanne tra cui 25 ergastoli. Quando Garibaldi, dopo la vittoria del Volturno, il 29 ottobre 1860 emanò un decreto d’indulto, fu deciso che gli imputati del processo di Bronte non potessero beneficiarne.