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Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - L'impresa dei Mille - 2 SPAZI, TEMPI, EVENTI - 2.11 Volturno - La battaglia di Caiazzo vista da un soldato borbonico (C. Alianello)

La battaglia di Caiazzo vista da un soldato borbonico
(C. Alianello)

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Nel 1942 lo scrittore Carlo Alianello pubblicò L’alfiere, primo di tre romanzi ambientati nell’Italia meridionale dell’Ottocento, nei quali la conquista del Sud viene vista come la drammatica occupazione di uno Stato sovrano (il Regno delle Due Sicilie) da parte di un esercito straniero (i garibaldini prima e i piemontesi poi). I suoi scritti vanno quindi contro il mito risorgimentale e criticano il modo in cui la storia dell’unità d’Italia è stata scritta dai vincitori. Per questo è stato accusato di essere filoborbonico ed è stato emarginato nel mondo della letteratura. Ne L’alfiere lo scrittore racconta le sconfitte dell’esercito borbonico da Calatafimi alla caduta di Gaeta attraverso la storia di Pino, giovane ufficiale napoletano che, pur consapevole della decadenza del Regno delle Due Sicilie e del tradimento dei comandanti del suo esercito, combatte fino alla fine una guerra ormai persa perché pensa di dover tener fede al giuramento prestato. Il brano si riferisce agli scontri a Caiazzo del 19-21 settembre 1860.

Verso le undici, quando cominciarono le prime cannonate, il caldo si faceva già sentire. I garibaldini, barricata la porta, s’erano appostati in forza su una leggera altura piantata a olivi presso l’entrata della città, a settentrione, ove s’annunziava l’attacco. Di lì si dominava la strada e a nessuno sarebbe stato lecito per essa entrare in paese, quando da quell’altezza la fucileria l’avesse molestato ai fianchi. Perciò ne fu deciso l’assalto.
E così la battaglia cominciò e gli uomini v’entrarono dentro come si scivola nel sonno, quando l’ultimo bagliore di coscienza si perde e uno già dorme e non lo sa.
Pino sentì schioccar le fucilate intorno a sé sui tronchi e fremer le fronde e vide un suo cacciatore che gli era al fianco piegarsi sui ginocchi e cader innanzi con la faccia a terra, prima ancora di aver detto a se stesso: ci siamo, e d’aver raccomandato, come dovere, l’anima sua a Dio, alla Vergine e ai Santi.
cacciatori, stesi a catena, avanzavano lentamente. Su quel gran sfondo bigio, tronchi e fronde degli olivi e fumo biancastro, le camicie rosse splendevano a bersaglio. Pino aveva tratto il revolver e sparava anche lui, che la spada ancor non gli serviva. Tirò dapprima col braccio teso, ma la distanza era troppa e il colpo non gli veniva bene; almeno per quel che poteva saperne lui, perché il troppo fumo, che si moveva col vento, gli scancellava sul più bello il nemico avviluppandolo di bigio, e il frastuono delle carabine che gli schioccavan davanti, dietro e proprio sotto le orecchie non gli faceva conoscere se quel colpo che buttava giù a stramazzar per terra una figurina rossa fosse il suo o di altri. Provò ad appoggiar il braccio a un tronco per tirar comodo, ma la mira era sempre troppo distante per quel gingillo e Pino rimise il revolver nella fondina.
«Viva l’Italia!» gridavan quelli di lassù e i cacciatori, a un ordine, inastarono le baionette. Allora le file si ricomposero e si serrarono mentre gli ufficiali snudavano le sciabole, e gli uomini, incalzandosi l’un su l’altro cominciaron a salir di corsa la china.
Le trombe suonavano, i tamburi battevano e l’aria, di dolce, s’era fatta rovente, e, di limpida, grassa e terrosa. A lor volta i cacciatori gridarono: «Viva lu Re!».
Pino ritrovò subito gli odori e il lezzo di Calatafimi: sentor di polvere, di panno abbruciacchiato, di ferro riscaldato, di cuoio e di sudore, e riudì con un brivido il tintinnar delle gamelle, che con gli uomini ruzzolavano giù pel terreno molle, e l’ansito roco e ansioso dei suoi cacciatori che dietro lui salivan la china, tossendo e bestemmiando.
Ma non aveva paura; se un poco il cuore gli aveva tremato a Calatafimi e a Palermo, ed era timor del timore più che paura, ora no. Ora l’ira lo teneva tutto.
Poiché non poteva combattere o non sapeva, contro la corruzione, il tradimento, l’ipocrisia che avevano tarlato e ucciso il suo paese, tutto il suo sangue era lì, contro quelli che parevano a lui i profittatori di quel tradimento, di quel tracollo. Istinti più che ragionamenti, ma Pino di questo era impastato e ora l’istinto lo portava a precipitarsi innanzi con la spada bassa e le narici dilatate. Vide contro il suo petto abbassarsi e oscillar punte di baionette con un barbaglio che abbacinava, affondò la spada in qualcosa di molle che subito cedette, vide visi vermigli farsi d’un subito esangui e il fumo l’accecava e qualcuno, sparandogli di sopra la spalla gli avvampò una guancia. Lì avrebbe avuto buon gioco il suo revolver, ma il ragazzo non ci pensò neppure che già se l’era scordato.
Il fragore e l’urlìo erano insopportabili e, quando a un tratto Pino alzò gli occhi al ciclo come smemorato, gli parve che quelle poche nubi lassù s’agitassero folli e l’azzurro stesse per precipitar su lui incrinato, di schianto.
Ma il primo assalto non sfondò la siepe delle baionette garibaldine e i cacciatori del Re dovettero ritirarsi.

 

Da Alianello C., L’alfiere, BUR Rizzoli, Milano 2011, pp. 356-357.

Guida alla Lettura

Vedi l'unità La battaglia del Volturno vista da un soldato garibaldino (G. Ferrari).

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