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Delusioni dell'Italia unita per vecchi e giovani (L. Pirandello)

Lo scrittore siciliano Luigi Pirandello, premio Nobel per la letteratura nel 1934, era figlio di un garibaldino che aveva partecipato a tutte le battaglie risorgimentali, ma lui, nato nel 1867, non aveva potuto che farsele raccontare.
Nel 1913 pubblicò un romanzo
I vecchi e i giovani, ambientato tra Roma e la Sicilia alla fine dell’Ottocento, che è una severa critica alla nuova realtà sociale e politica emersa dal processo di unificazione.

In questi due brani appare la delusione dei padri rispetto agli ideali del passato e quella dei figli per una vita senza ideali.

I vecchi

Nella casa di donna Caterina Auriti Laurentano, il giorno delle elezioni, erano raccolti intorno a Roberto i pochi amici rimasti fedeli, riveduti in quei giorni, mutati come lui dal tempo e dalle vicende della vita.

Per un momento, negli occhi di ciascuno, abbracciando l'amico, era guizzato lo sguardo della gioventù, di quei giorni lontani, ignari di ciò che la sorte riserbava; e, subito dopo, fra un lieve tentennìo del capo, quegli occhi s'eran velati di commozione mentre le labbra si schiudevano a uno squallido sorriso.

«Chi ci avrebbe detto, – esprimevano quello sguardo velato e quel sorriso – chi ci avrebbe detto allora, che un giorno ci saremmo ritrovati così? che tante cose avremmo perdute, che erano tutta la nostra vita allora, e che ci sarebbe parso impossibile perdere? Eppure le abbiamo perdute; e la vita ci è rimasta così: questa!». […]

Ciascuno s'era adattato alla meglio alla propria sorte, s'era fatto un covo, uno stato.

Sebastiano Ceràulo, avvocato di scarsi studii, fervido improvvisatore di poesie patriottiche negli anni della Rivoluzione, giovine allora animoso, impetuoso, con una selva di capelli scarmigliati, era entrato per favore come segretario negli ufficii della Provincia, e si raffilava ora sul cranio con miserevole studio i quattro lunghi 100 peli incerottati che gli erano rimasti; s'era ingrassato enormemente; aveva preso moglie; ne aveva avuto cinque figliole, ora tutte smaniose di trovar marito.

Un altro, Marco Sala, condannato a morte dal governo borbonico, e pur non di meno tante volte dall'esilio venuto in Sicilia travestito da frate per diffondervi segretamente i proclami del Mazzini, s'era dato prima al commercio dello zolfo; aveva avuto fortuna per alcuni anni; poi un tracollo; e per parecchio tempo aveva mantenuto col giuoco la famiglia; alla fine aveva avuto il posto di magazziniere dei tabacchi.

Rosario Trigòna, che nella giornata del maggio del 1860, a Girgenti, mentre Garibaldi combatteva a Calatafimi, era uscito solo, pazzescamente, con altri quattro compagni, la bandiera tricolore in una mano e uno sciabolone nell'altra incontro ai tre mila uomini del presidio borbonico, e che, inseguito, tempestato di fucilate, era scampato per miracolo e aveva raggiunto a piedi Garibaldi vittorioso, Rosario Trigòna, disfatto adesso dalla nefrite, gonfio, calvo, sdentato e quasi cieco, sovraccarico anch'esso di famiglia, vivucchiava miseramente col magro stipendio di vice-segretario alla Camera di Commercio.

E Mattia Gangi, che aveva buttato la tonaca alle ortiche per prender parte alla Rivoluzione, ora, asmatico, rabbioso, con la barba, i capelli e le foltissime sopracciglia ritinti d'un color rosso di carota, insegnava nel ginnasio inferiore alauda est laeta e «lieta un corno!» soggiungeva ai ragazzi con tanto d'occhi sbarrati: «ma che lieta! non ci credete, canta perché ha fame, canta per chiamare! lieta un corno!»
Contrastava con questi Filippo Noto, alto, magro, appassito, ma ancora biondiccio e azzimato. […] Studiando molto, era riuscito a tenersi a galla, a rinnovarsi coi tempi, pur rimanendo malva, conservatore; passava per uno degli avvocati più dotti del foro siciliano, ed era spesso chiamato a difendere le più importanti cause civili anche a Palermo, a Messina, a Catania.

Questi cinque amici e il canonico Agrò si sforzavano di tener desta la conversazione, parlando di cose aliene, di avvenimenti lontani, ricordando aneddoti che promovevano qualche riso stentato; tanto per impedire che col silenzio il peso della sconfitta, quantunque prevista, gravasse maggiormente su gli animi oppressi.

Ma veramente, a poco a poco, dopo la prima scossa nel riveder l'amico e ora per la commozione crescente nel rievocare gli antichi ricordi della gioventù, cominciava a scomporsi in loro la coscienza presente, e con una specie di turbamento segreto che li inteneriva avvertivano in sé la sopravvivenza di loro stessi quali erano stati tanti e tanti anni addietro, con quegli stessi pensieri e sentimenti che già da un lungo oblìo credevano oscurati, cancellati, spenti.

Si dimostrava vivo in quel momento in ciascuno di loro un altro essere insospettato, quello che ognun d'essi era stato trent'anni fa, tal quale; ma così vivo, così presente che, nel guardarsi, provavano una strana impressione, triste e ridicola insieme, dei loro aspetti cangiati, che quasi quasi a loro medesimi non sembravano veri.

Da Pirandello L., I vecchi e i giovani, in: http://www.liberliber.it, pp. 278-281.

 

I giovani

Calmo e freddo in apparenza, Lando Laurentano covava in segreto un dispetto amaro e cocente del tempo in cui gli era toccato in sorte di vivere; dispetto che non si sfogava mai in invettive o in rampogne, conoscendo che, quand'anche avessero trovato eco negli altri, come ne trovavano difatti quelle dei tanti malcontenti in buona o in mala fede, non avrebbero approdato a nulla.

Era, quel suo dispetto, come il fermento d'un mosto inforzato, in una botte che già sapeva di secco.

La vigna era stata vendemmiata. Tutti i pampini ormai erano ingialliti; s'accartocciavano aridi; cadevano; i tralci nudi si storcevano nella nebbia autunnale, come chi si stiri in un lungo e sordo spasimo di noja; nella grigia distesa dei campi, tra la caligine umida, non rimaneva più altro che un accennar muto e lieve e lento di pàlmiti vagabondi.

Aveva dato il suo frutto, il tempo. E lui era venuto a vendemmia già fatta.

Il mosto generoso e grosso, raccolto in Sicilia con gioja impetuosa, mescolato con l'asciutto e brusco del Piemonte, poi col frizzante e aspretto di Toscana, ora col passante, raccolto tardi e quasi di furto nella vigna del Signore, mal governato in tre tini e nelle botti, mal conciato ora con tiglio or con allume, s'era irrimediabilmente inacidito.

Età sterile, per forza, la sua, come tutte quelle che succedono a un tempo di straordinario rigoglio.

Bisognava assistere, tristi e inerti, allo spettacolo di tutti coloro che avevan dato mano all'opera e volevano ora esser soli a darle assetto; alcuni tuttavia sovreccitati e quasi farneticanti, altri già lassi e crogiolantisi con senile sorriso di sufficienza nella soddisfazione d'un'ardua fatica comunque terminata, di cui non volevano vedere i difetti, né che altri li vedesse.

 

Da Pirandello L., I vecchi e i giovani, in: http://www.liberliber.it, pp. 370-371.

Guida alla Lettura

1) In che modo sono cambiati Sebastiano Ceràulo, Rosario Trigòna, Mattia Gangi sia nel fisico che nelle scelte di vita?

2) Perché Filippo Noto contrasta con loro?

3) Di quale sconfitta pensi che sentano il peso? E perché l’avevano comunque prevista?

 

4) In che senso l'impressione che provano guardandosi è triste e ridicola insieme?

5) Prova a spiegare la metafora con cui Lando Laurentano descrive il tempo in cui gli è toccato di vivere:

  • che cosa significa che la vigna era stata vendemmiata?

  • che cosa vuol dire che i pampini ormai erano ingialliti?

  • perché lui era venuto a vendemmia già fatta?

  • che cosa stanno a significare i tre vini citati?

  • che cosa è successo ai vini e perché?

  • perché la sua età è sterile?

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