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Sei in: Fare l'Italia, fare gli italiani - Un decennio di preparazione e di guerre (1850-1859) - 2 SPAZI, TEMPI, EVENTI - 2.5 La Seconda guerra d’indipendenza - Da Milano a Solferino

Da Milano a Solferino

L’8 giugno 1859, quattro giorni dopo la vittoriosa battaglia di Magenta, Vittorio Emanuele e Napoleone III entravano trionfalmente a Milano, accolti da una folla esultante.

Napoleone e Vittorio Emanuele si fermarono in città per alcuni giorni, contesi fra patrioti e famiglie nobili ansiose di acquisire buone relazioni con i vincitori. Napoleone III fu ospite anche nel salotto di Clara Maffei.
Negli stessi giorni Gyulai, dopo aver rinunciato alla controffensiva, anche per la perdita di Melegnano, occupata dopo una breve battaglia dai franco-piemontesi in avanzata, ritirava le sue truppe verso le fortezze del Quadrilatero.
Tra i suoi aiutanti di campo cresceva il malcontento per la condotta della guerra, palesemente incerta e inadeguata. Anche l’imperatore Francesco Giuseppe dubitava ormai delle competenze del suo feldmaresciallo, a metà giugno lo esonerò e prese in prima persona il comando delle operazioni militari.
Dopo la sosta a Milano Napoleone III iniziò a studiare una strategia per la conclusione della campagna militare italiana. Per prima cosa fece avanzare il suo esercito verso est, all’inseguimento degli austriaci, ma questi, durante la ritirata, avevano danneggiato la ferrovia e quindi l’esercito franco-piemontese non poté servirsi del treno e procedette a piedi, con molta lentezza.

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Michele Bisi, Ingresso a Milano di Vittorio Emanuele II e Napoleone III, 1859,
Civiche Raccolte Storiche, Milano

La battaglia di Solferino

Fu lo scontro decisivo della guerra, spaventoso per l’ampiezza del fronte, per il numero dei partecipanti e per il numero dei caduti.
Napoleone III e Vittorio Emanuele raggiunsero le truppe, attestate sulla sponda del fiume Chiese a occidente del Mincio. Francesco Giuseppe si trovava a Volta Mantovana, abbastanza lontano dal campo di battaglia e quindi senza un controllo immediato sul terreno di scontro.
Gli austriaci temevano un attacco da più direzioni: da nord da parte dei volontari di Garibaldi, da ovest da parte dell’esercito franco-piemontese e anche da sud, perché un corpo di volontari, al comando di Gerolamo Bonaparte, era in marcia dalla Toscana per congiungersi alle truppe francesi. Francesco Giuseppe quindi alternò ordini e contrordini facendo muovere i suoi reparti in relazione alle frammentarie notizie sugli spostamenti nemici. Sperava di poter ottenere una vittoria, che avrebbe convinto la Prussia a scendere in campo al suo fianco ma, intorno al 23 giugno, credeva di avere ancora alcuni giorni per organizzare i suoi reggimenti e studiare una strategia di attacco.
Neppure Napoleone III aveva notizie certe dello schieramento austriaco e avanzava verso est supponendo anch’egli di avere ancora del tempo per studiare una strategia di battaglia, pensava infatti che sulle alture di Solferino ci fossero solo le retroguardie austriache a difesa del grosso dell’esercito attestato nelle fortezze del Quadrilatero. Lo scontro, quindi, inizialmente sorprese entrambi gli stati maggiori.
I due eserciti contrapposti si muovevano infatti per occupare una linea di fronte ampia, utile per controllare l’intero possibile terreno di scontro. E questo spiega forse perché la battaglia si articolò lungo quasi 20 km e coinvolse ben sei centri abitati: San Martino, a nord vicino alle sponde del lago di Garda, e Madonna della Scoperta poco più a sud, dove si trovarono in prima linea i piemontesi (circa 35.000 uomini su 65.000 effettivi), Solferino, la posizione centrale e decisiva, MedoleCavriana e Guidizzolo ancora più a sud.
I combattimenti iniziarono il 24 giugno 1859.
A nord, a San Martino e a Madonna della Scoperta ci furono ben sette attacchi dei piemontesi, condotti con coraggio e abnegazione, ma in realtà poco coordinati, seguiti da contrattacchi austriaci e quindi con un esito incerto fino alla sera, quando gli austriaci si ritirarono lasciando le postazioni.
Solferino i francesi attaccarono all’alba, sorprendendo gli austriaci nel sonno e a digiuno. Questi si erano arroccati in tre postazioni: la rocca, il centro abitato e il cimitero. Lo scontro fu durissimo, anche per il caldo soffocante che aumentava con l’avanzare del giorno. Napoleone, che osservava tutto il fronte da una altura, capì che il punto chiave del fronte era proprio Solferino e dopo alcune ore fece intervenire la Guardia imperiale, 5000 soldati scelti, con energie fresche perché non ancora impegnati in battaglia. Si combatteva aspramente casa per casa, mentre la popolazione del paese, impietosita, portava soccorso e acqua ai soldati di entrambi gli schieramenti. La vittoria francese si delineò fin dal primo pomeriggio.
Più a sud, da Medole, dove era iniziato, lo scontro si spostò a Cavriana e Guidizzolo e i francesi prevalsero anche grazie all’uso dei cannoni rigati, molto precisi, che tenevano sotto tiro i soldati nemici, senza riparo su un terreno abbastanza pianeggiante.
Alla fine del pomeriggio scoppiò un violento temporale che pose fine alla carneficina.
I combattenti coinvolti furono complessivamente 238.000. Le perdite, tra morti e feriti, furono quasi 28.000 (13.000 circa austriaci, oltre 10.000 i francesi e circa 4760 i piemontesi). Oltre ai caduti occorre citare il numero di prigionieri o dispersi che fu di 10.930: circa 8638 austriaci, 1518 francesi, 774 piemontesi.
Era dai tempi delle campagne napoleoniche che non si assisteva più a uno scontro così sanguinoso.
Henry Dunant, un commerciante ginevrino, che aveva raggiunto Napoleone III per proporgli un progetto di mulini, si trovò a vagare per il campo di battaglia il giorno dopo, collaborò con i servizi sanitari dei tre eserciti e la popolazione di Solferino nell’assistenza ai feriti. Fu così sconvolto da ciò che vide da impegnarsi negli anni successivi nella creazione di un corpo di soccorso che portò alla nascita della Croce Rossa.

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Eleuterio Pagliano, La presa del cimitero di Solferino, 1866, olio su tela, 361x210 cm, Museo del Risorgimento, Milano. 
Gli austriaci con le casacche bianche in primo piano sparano verso la porta del cimitero per coprirsi la ritirata. A terra ci sono diversi caduti. All’entrata del cimitero avanzano gli zuavi, con la caratteristica divisa (fez, corta giubba scura e pantaloni rossi al ginocchio, che furono detti, appunto, “alla zuava”): una divisa leggera che lasciava maggiore libertà di movimento

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