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Lo spurgo degli ufficiali garibaldini (L. Bianciardi)

La precisa ricostruzione letteraria di Luciano Bianciardi ne La battaglia soda (pubblicato nel 1964) ci dà un’idea molto chiara della delusione e dell’incertezza generate fra i garibaldini, quando – l’11 novembre 1860 – un decreto di Cavour dichiarò sciolto l’esercito meridionale.

Io me ne vado, avea detto Garibaldi dandoci il suo mesto addio, e presto ce ne saremmo andati anche tutti noi. Si sen­tiva oramai nell’aria che per noi non c’era più posto, che le gloriose camicie rosse avrebbero dovuto cedere ogni cosa ai cappotti turchini e alle tuniche cariche d’argento dei generaloni piemontesi. Come limoni spremuti, ebbe ad aggiun­gere Garibaldi in un empito di amarezza, ci buttavano via. Eppure, pensavo io rigirandomi sulla brandina quella notte dei morti, eppure che cosa mai impedirebbe di restare a fian­co a fianco, loro e noialtri, regolari e volontari, soldati tutti di una stessa nazione? E non dovevamo forse, concordi, com­piere l’opera principiata sotto auspici tanto lieti, liberare l’Italia tutta, scacciare gli ultimi tiranni, e cioè l’austriaco da Venezia e il prete da Roma? Non era forse questo il comun proposito? E perché dunque la velenosa passione delle sette già cominciava a dividere i fratelli?
Fin dal loro primo arrivo i generali piemontesi, pettoruti e tronfi per la bravura di aver schioppettato i papalini del ge­neral Lamoricière, avevano fatto intendere per moltissimi se­gni alle nostre lacere camicie rosse che neanche ci avrebbero tollerati alle riviste di piazza d’arme, e addirittura il re, dopo aver promesso di venirci a vedere, ci tenne un’intera giornata nei ranghi e poi non comparve, e i volontari ritornarono ai loro alloggiamenti bestemmiando. Insomma questi erano i nuòvi vincitori, e se degnavano di volgere l’occhio su di noi, lo sguardo loro era più o meno quello che tocca ai cani capi­tati nelle chiese senza invito.
[…]
Sirtori mi ricevette a palazzo d’Angri nella stanzuccia spo­glia che gli serviva da studio. Di mediocre altezza, asciutto, moderato e attento nel suo dire, egli mi spiegò in breve che per noialtri ufficiali s’era formata una commissione, con a capo l’ammiraglio Genova Thaon de Revel, per studiare di ciascheduno lo stato di servizio e fare lo spurgo dei meno degni. La parola non poteva piacere al general Sirtori, e non piacque a chi scrive, cosa che non tenni nascosta, ma lui vol­le rassicurarmi che, essendo anche egli nella commissione, avrebbe difeso i nostri buoni diritti e garentito giustizia per quelli, fra i coraggiosi e i capaci, che decidessero di raffermar­si nei regolari. Per chi all’opposto voleva ritornarsene a casa e riprendere le sue faccende di borghese, erano assicurati sei mesi interi di soldo. Nel rispondere al mio saluto, Sirtori volle stringermi la mano ed ebbe buone parole di addio. “Stia sano, signor maggiore, e sappia ch’io garentirò per lei. Ove ella de­cida di non smettere la spada, le verranno serbate le spalline, che furono ben meritate.”
Escii di lì ancor crucciato da questa bella novità che si vo­lesse fare lo spurgo degli ufficiali garibaldini, quasi fossero lu­mache da cucinare poi col peperoncino rosso, ma insieme lieto di così bella accoglienza e di quelle parole, perché come si suol dire, da Lodi passano tutti volentieri, specialmente poi se chi ti loda è un uomo che sa misurarsi nei complimenti.

 

Da Bianciardi L., La battaglia soda, Bompiani Tascabili, Milano 2003, pp. 11-12, 19.

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