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Disprezzo dei piemontesi per i garibaldini (G. Bandi)

Dopo l’arrivo del re a Napoli nell’ottobre 1860 e la cessione da parte di Garibaldi di tutte le conquiste fatte, i rapporti tra l’esercito meridionale garibaldino e l’esercito piemontese divennero sempre più tesi. Giuseppe Bandi nel suo libro di memorie I Mille. Da Genova a Capua ne dà un esempio.

Ora avvenne che partito il dittatore, fu ordinata una gran rivista nel Campo di Marte, e a quella rivista si volle che, ad ingrossare l’esercito, accorresse la guardia nazionale. Il generale Sirtori, al quale Garibaldi aveva lasciato il comando dei volontari, chiese al generale Della Rocca se gradirebbe il re che i volontari si schierassero essi pure nel Campo di Marte, parendogli essere quella una buona occasione perché il re li vedesse e non sembrasse averli a sdegno, come fino allora era parso.
Fu risposto che volentierissimo sua maestà avrebbe veduto i soldati di Garibaldi, ma che trattandosi di una parata solenne e riflettendo che i volontari, affaticati e logori da una lunga campagna, non erano in decente assetto e non potevano far figura in mezzo all’esercito e alla guardia nazionale, era meglio che restassero in pace nei loro alloggiamenti.
Fu soggiunto però che se a qualche ufficiale superiore fosse piaciuto venire alla festa, venisse pure e pigliasse luogo nel seguito del re.
Questo invito, fatto così per ripiego e col tono con cui suol rispondersi alle cortesie d’un ospite molesto, non piacque punto agli ufficiali de’ volontari, i quali, una voce dicentes, risolvettero di fare orecchio da mercante, e di lasciar tranquillo il re col suo esercito e colla guardia nazionale, bellissima e lustrissima, ed avida dei trionfi della piazza d’arme.
Il solo Stefano Siccoli, uomo sempre di sua testa, e pigliatore di partiti nuovi, fu di parer contrario, e disse che andrebbe alla parata, e voleva che altri ci andasse, tanto per non far vedere al popolo di Napoli che l’esercito regolare e l’esercito dei volontari si guardavano come soglion guardarsi la suocera e la nuora. A nessuno piacque il suo partito, ed egli risolvette andarvi solo; e nel dì della rivista, si pose indosso la sua camicia rossa più nuova, e montò a cavallo, su certa sella, fatta a posta per tenerlo in equilibrio con una unica gamba, e si imbrancò bravamente nel seguito del re, che bellissimo era, e numeroso e pieno di pezzi grossi.
Tutto andò bene nell’andata da palazzo al campo, né ci fu chi dicesse una parola brusca o desse uno sguardo torto al maggiore garibaldino, in tempo della parata, ma nel ritorno non fu così.
Era giunto il re a metà di via Toledo e procedeva di passo in mezzo a una folla sterminata, che parea volerselo divorar vivo dal gran bene, quando Stefano Siccoli, scorgendo tra gli ufficiali della casa reale certi suoi amici, spinse alquanto il cavallo e si mescolò tra loro, e se ne venne in giù, senza sospettare nemmeno per ombra di aver commesso un sacrilegio e di meritare sul capo le tremende folgori dell’olimpo. Era tanto superbo della sua camicia rossa, che gli sarebbe parso di vagellare, se qualcuno gli avesse detto che quella camicia non era degna di far compagnia alle dorate divise della regia casa. Poi, e’ sapea che gli ufficiali de’ volontari erano stati invitati a far parte del corteo, e non potea aspettarsi che un servitore in livrea dovesse dirgli: «Scostati, ché m’offendi gli occhi».
Pure ciò che il povero Siccoli non sospettava, accadde proprio nel bel mezzo della via Toledo, dove il capo dei palafrenieri gli si avvicinò con piglio ardito e senza nemmeno dargli il buon dì, esclamando a voce alta:
– Signor maggiore, lei non fa parte della casa reale, faccia grazia di andarsene indietro.
Queste parole furono udite dalla folla, e la folla strabiliò, ma le udirono anche gli ufficiali del seguito, e sul volto a taluni di questi parve al Siccoli di aver colto un sorriso di compiacenza ed anche un ghigno beffardo.
Onde e’ rispose:
– Sarà come voi dite, ma io non venni qua senz’invito e sono ufficiale come tutti gli altri e non piglio lezioni dai servitori.
E il servitore a lui:
– Sta bene. Ora io dico che se lei non obbedisce colle buone, troverò altri mezzi per farlo obbedire.
Il nostro Siccoli era tra l’uscio e il muro. Una delle due: o chinar la testa ed andarsene colla coda tra le gambe o far capire al palafreniere che gli ufficiali di Garibaldi non meritavano il trattamento che suol darsi a’ cani per le chiese. Ed egli, senza far lunga consulta con se stesso, afferrato un grosso scudiscio che teneva appeso a destra della sella, là dove non aveva la gamba per lavorar di sprone, lo menò per due volte sul viso al palafreniere.
Il palafreniere tutto pien di sangue che gli pioveva giù dal naso cominciò a gridar come un’aquila; e, sospinto il cavallo, si appressò ad un maggiore dei carabinieri, accennandogli il Siccoli, e invocando da lui giustizia e vendetta. Ma il Siccoli, che ormai avea perduto il lume degli occhi, e capiva bene che per cavarsela con onore, era il caso di dover giocare di tutti, salì col cavallo sul marciapiede, e colla mano sull’elsa della sciabola, aspettò fieramente che alcuno gli si avvicinasse per fargli violenza.
Per buona sorte, nessuno gli si fe’ dinanzi; però il re si volse, e, saputo il caso, lo sbirciò con occhi adirati, e lo stesso fecero Cialdini e Lamarmora e quanti altri eran seco.
Il peccatore proseguì allora la sua via, standosene sempre tra gli ufficiali della casa reale, e quindi se ne andò al suo alloggio, tranquillamente, e fu lieto e contento per tutto quel giorno e per quella notte. Ma la mattina dipoi, il generale Ricotti, comandante la piazza di Napoli, lo chiuse nel castello dell’Uovo, e quivi rimase doloroso e solo per due lunghi mesi, meditando sul risico che si corre nel volere avvicinarsi soverchio al sole e nel rispondere colle mani alle impertinenze dei servitori indiscreti.

 

Da Bandi G., I Mille. Da Genova a Capua, in: http://www.liberliber.it, pp. 762-766.

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